Quel tragico errore di abiurare la sinistra e fondare il Pd

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di Vindice Lecis

Ha ragione Bersani quanto spiega che la scissione è già stata consumata. Ma non tra il Pd e qualche parte della sua classe dirigente, quanto tra questo partito nato nel 2007 e i suoi elettori e iscritti. Il crollo delle tessere lo dice chiaramente. Quelle del 2016 – mancano ancora dati ufficiali ma queste erano le tendenze di qualche settimana fa – erano circa il 10% in meno dell’anno precedente. Nel 2015 il Pd si era fermato a 385.320 iscritti. Un dato drammatico, uno smottamento tremendo per una forza politica che voleva essere popolare e di massa.

La fuga degli iscritti è costante ma, nel 2013, la ditta di Bersani poteva vantare comunque 539.354 iscritti. Crollati nel 2014, nella scintillante era Renzi-Lotti-Boschi-Franceschini a 380 mila. Le cronache raccontano di un Pd paralizzato in intere regioni, quali Sicilia e Calabria. In Sardegna si sono dimenticati di eleggere da molti mesi il segretario regionale dopo la spenta parentesi di Renato Soru (l’aedo della comunità di destino). In Emilia Romagna le adesioni nel 2015 non avevano superato le 37 mila (nel Pci, per dire e senza fare paragoni impossibili, erano mezzo milione), nella città di Torino mille, novemila a Milano. A Roma partito commissariato con quasi tutti i circoli sprangati e gli iscritti in picchiata.

Ecco perché di fronte a una sequela ininterrotta di sconfitte nate dopo l’ubriacatura del 41% alle Europee, temere una scissione nel Pd è come non vedere la realtà. I tre anni di turborenzismo sono edificati su un cumulo di macerie: le sconfitte nelle amministrative e nelle regionali avevano preparato il tracollo referendario, una sollevazione popolare di dimensioni imponenti. Sconfitte non analizzate né affrontate adeguatamente per fare tesoro degli errori. Ma invece costruite sapientemente in tre anni, originate dal vizio d’origine della manovra di palazzo per far fuori un presidente del Consiglio del Pd, dopo il via libera di Napolitano.

Mettendo in fila le scelte di Renzi nei tre anni di governo si trova la soluzione (e c’è da restare allibiti anche per la docile acquiescenza dimostrata dall’informazione, dai cosiddetti corpi intermedi e dagli intellettuali abbacinati dal mito assai funesto della giovinezza e della celerità a-democratica). Anzitutto il disastro che si chiama jobs act. Non è propagandistico affermare che si tratta della peggior legge dal dopoguerra, una riscrittura della legislazione sul lavoro imponente ma con un unico obbiettivo: precarizzarlo, renderlo flessibile al punto da rendere impossibili le tutele, impoverirlo dei diritti fondamentali, intimidendo i lavoratori. Gli ammortizzatori sociali, considerati un lusso scandinavo, sono quasi spariti.

Oltre a questo anche la pervicacia nell’attacco ai contratti collettivi nazionali, all’aggressione – fino all’irrisione – delle forze sindacali spesso cloroformizzate o rinchiuse nei ridotti di aziende e territori (per fare contratti più o meno vantaggiosi dove si torna alle gabbie salariali), alle politiche di corto respiro come i bonus a sotto-categorie o a coriandoli di esse che hanno lasciato una voragine nei conti e non hanno determinato crescita e sviluppo. La cosiddetta buona scuola ha determinato uno strappo profondo. Ritenere l’istruzione una merce, aziendalizzarla, imbrogliare le carte sulle graduatorie e la precarietà, criminalizzare gli insegnanti e lasciare l’istruzione pubblica come orpello è stata una prova di forza disastrosa. A questo si deve aggiungere – lo ammettono anche alcuni ministri – le leggi che agevolano le devastazione del territorio con l’incredibile Sblocca Italia, sbocco naturale per un partito che ha rafforzato oltre ogni remora morale i suoi rapporti con l’imprenditoria in particolare con quel capitalismo di relazione o straccione.

Infine, l’azzardo di voler distruggere una parte della Costituzione. Sono trascorsi alcuni mesi e non si sono sentite dalle parti del Nazzareno analisi profonde. Renzi e i suoi ammettono – e ci mancherebbe altro – la sconfitta. Ma la ritengono frutto di un mero difetto di comunicazione. Non hanno compreso quei gruppi dirigenti quanto era ed è profondo il disagio del paese, quanto inadeguata sia stata l’azione del governo basata su un ottimismo di maniera e su raffiche di annunci. Oltre ad aver sottovalutato il legame che lega l’Italia alla sua Costituzione.

Il Pd non esiste più. Esiste il Pd di Renzi – sono parole del trio Speranza-Rossi-Emiliano – diventato un partito personale, un partito del capo: fuori all’alveo della tradizione della sinistra italiana, intossicato da corruzione e arroganza, incapace di parlare al Paese profondo, pericoloso per la sua pulsione autoritaria. Nei territori il partito, ridotto ai minimi termini come forza organizzata, è un grumo avvelenato di correnti dirette da capi bastone.

A questo punto bisogna avere l’onestà di riconoscere che la fusione tra Ds e Margherita è stata un errore. Un gravissimo e colpevole azzardo. Un salvataggio reciproco di partiti declinanti e che, solo in parte, detenevano le chiavi di antiche tradizioni. Ora il Pd è in mano a una generazione assai spregiudicata di democristiani spuri e di post cattolici democratici: Renzi, Boschi, Guerini, Bonifazi, Delrio, Rosato, Franceschini, Zanda. Nomi di peso e tutti di estrazione Dc. Gli ex comunisti (che sono tali, precisiamo) sono stati messi ai margini, massacrati con la finta rottamazione, irrisi come orpelli novecenteschi (meglio Bisaglia e Rumor di Berlinguer?) e collocati ad abbellire qualche comodino come ad esempio Fassino. La tradizione comunista è stata cancellata, annullata, osteggiata.

Alla base della fusione veltronian-prodiana c’era inoltre un’idea sbagliata: mettere in soffitta il conflitto tra capitale e lavoro. Che non significa non vedere i cambiamenti del lavoro e come si sia scomposto ma come lo scontro degli interessi sia sempre presente anche nel XXI secolo. E si tratta di interessi che non coincidono spesso. Tra Landini e Marchionne bisogna decidersi da che parte stare. Per questo motivo il partito ha smarrito il suo ruolo, la sua funzione di rappresentanza.

Politiche di centrosinistra difficilmente distinguibili da quelle di centrodestra, prone alla finanza e a un’Europa che non è certamente amica, hanno alimentato il cosiddetto populismo. Scelte del lavoro sbagliate, gestione immigrazione opaca, diritti dei cittadini e dei consumatori messi da parte, ambiente non protetto. Burocrazia, ottusità e miopia europea hanno alimentato i nuovi fascismi ma anche fatto aprire gli occhi su quanto anche l’Euro fosse un grande, gigantesco imbroglio. Un partito e un’intera generazione politica che hanno legato il loro e il nostro destino a una moneta unica, che devasta gli interessi nazionali e di conseguenza i popoli, ha il respiro corto.

Fa dunque sorridere l’intervista di Veltroni al Corriere di qualche giorno fa. Lui afferma che la scissione è un incubo. Non affronta però i nodi del declino e rilancia la sua ottusa vocazione maggioritaria. Dice che la sinistra deve affrontare la sfida del mondo nuovo. Ha ragione, ma non deve farlo con gli strumenti della destra. Il Pd, per sua natura, non può essere la casa di chi ha storie di sinistra o progressiste o cerca qualcosa di nuovo. Il Pd è il vecchio, il notabilato, l’imprenditoria furba. Prenderne atto è urgente.

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