Stampa e renzismo, che cosa c’è dietro quel rapporto malato (e che fa male alle vendite)

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di Vindice Lecis

Soltanto con il primo Mario Monti, il Supermario della lotta epica allo spread e del “ce lo chiede l’Europa”, un presidente del Consiglio è stato sostenuto in modo così puerilmente acritico dalla grande stampa nazionale (ma per meno tempo). Nonostante la luna di miele sia finita da un pezzo e governi da tre anni senza aver combinato granchè se non danni seri, Renzi gode di appoggio e protezione mai visti prima. Un sostegno militante così ferreo che non si ricordano precedenti.

Non era capitato ai tempi di Berlusconi, fieramente avversato dai “liberal” nell’ordine per: conflitto d’interessi, guai giudiziari gravissimi, sdoganamento di fascisti ed ex fascisti, svendita dello Stato. Contro di lui si mobilitò la parte “democratica” del Paese, quella che voleva difendere la Costituzione e con essa si faceva scudo. Quella che voleva mantenere i diritti del lavoro e dell’informazione e si battè infatti con un’energia tale che, prima la riforma delle pensioni e poi l’abolizione dell’articolo 18 fallirono. Il sostegno della stampa e dell’informazione non arrivò né ai tempi di Prodi e D’Alema, contrastati perché di centro-sinistra e continuamente sospinti a fare “cose atlantiche” ed “europee”. A D’Alema non si perdonò una guerra chiesta dalla comunità internazionale (ben prima il quotidiano La Repubblica però gli aveva preferito l’evanescente Veltroni alla guida del partito) e a Prodi di aver portato al governo gli ex Pci.

Con Mario Monti il rapporto incestuoso tra stampa e potere fu portato in pochi mesi a forme di parossismo comico. Fu glorificato l’uomo in loden, l’economista sobrio, il conoscitore dell’Europa e dei mercati finanziari. Tanto vicino da averci lavorato in molte di quelle istituzioni che, infatti, chiesero e ottennero dall’Italia ciò che Berlusconi non era riuscito a fare. L’importante era, comunque, non tornare a votare secondo la bibbia di Napolitano.

L’uso strumentale del fatidico spread fu l’occasione attesa da tempo. I circoli finanziari continentali e d’oltre atlantico (con l’intesa di un Parlamento cloroformizzato, di sindacati acquiscenti e con la regia sempre di Napolitano) decisero che con Monti si poteva dare il primo grande colpo all’architettura faticosamente costruita in decenni di Stato sociale: si avviarono cioè le “riforme” , o meglio si portarono a termine. Quella delle pensioni fu un disastro autentico, un delirio di idiozia e rigorismo che lasciò sul campo milioni di lavoratori beffati. Poi si smantellò l’Articolo 18, non del tutto ma il colpo fu pesante. Il Pd, a volte per convinzione a volte per necessità, ingoiò tutto. E da quel momento che si rafforzò un rapporto malsano tra il “nuovismo” deleterio che voleva sostenere l’austerità e il rigorismo in cambio di una riduzione dei diritti dei cittadini e di un restringimento dei confini d’intervento dello Stato. Si arrivò in un clima di scampato pericolo a inserire in Costituzione il pareggio di bilancio. Tra gli applausi, persino.

Del periodo Monti restano decine di pagine monografiche che con stupore infantile seguivano e sostenevano il lavoro del Professore in loden, eroe nazionale con Napolitano per aver cacciato l’odiato Berlusconi. Nel frattempo la stampa liberal, quella un tempo accigliata e ora desiderosa di considerazione e riconoscimenti, non si accorse del fenomeno Grillo, obnubilata dalla sindrome Fassino (si faccia un partito e vediamo) e non aiutò eccessivamente Bersani, troppo di “sinistra” e legato alla Ditta.

E così giunse l’appoggio di stampa e tv a reti unificate a Enrico Letta. O meglio ancora a Napolitano che impose un governo di unità nazionale di cui non si sentiva bisogno. Fu rafforzato il “combinato disposto” del “non ci sono alternative” e il dire basta allo Stato che interviene e regola. Così come dopo la caduta di Berlusconi anche con Letta si manifestò l’isteria dell’unità nazionale portata a cornice dentro cui tutto doveva stare.

Da quel momento i giornali furono ancora più prigionieri della “necessità nazionale”. Tutto si teneva dentro la gabbia del conformismo. Quelli che un tempo erano stati temi centrali della nostra democrazia, divennero “totem” da smantellare – la Costituzione, l’articolo 18 e altre questioni sociali – furono affrontate da Letta (per poco tempo) e quindi da Renzi dentro la cappa del liberismo e dell’austerità.

Renzi fu preferito a Bersani. “Repubblica” e Napolitano costituirono la corazza più forte per l’ex sindaco di Firenze. Attorno a lui si creò una cintura protettiva e si costruì un clima artefatto con servizi, inchieste, titolazioni di sostegno acritico. Retroscena imbarazzanti per la loro inconsistenza. Tutta la galassia dell’informazione leggera, di gossip (stampata e televisiva) si lanciò a raccontare il “nuovo”, impersonato dal fiorentino. Il corpo del capo parlava per lui, il suo abbigliamento, la sua scanzonata propensione alla battuta (così simile a quella di Berlusconi) e alla deformazione propagandistica. Non guardava al passato Renzi, né al futuro ma solo al presente, cioè a se stesso. Si osservò con compiacimento questo spregiudicato ex Popolare. I giornali raccontarono la sua rapida scalata al Pd diventato in poco tempo un partito poco più che personale e dove gli ex Pci erano stati fatti fuori.

La stampa liberal appoggiò il Patto del Nazareno dimenticando cosa era stato Berlusconi. Appoggiò con convinzione gli alfanoidi e, persino, l’alleato plurinquisto Verdini. A Renzi tutto fu perdonato e, anzi, si cantarono le gesta di questo premier che batteva i pugni sul tavolo ovunque, con quella sua verve govanilistica e guascona. Fu aiutato nella “rottamazione” che, alla fine, riguardò solo D’Alema e sostenuto in modo davvero esagerato su ogni questione. Il partito di carta stampata appoggiò l’altro partito, quello che ebbe il 40% dei voti alle Europee drenando consensi a destra e annichilendo la sinistra.

Il partito della nazione, prima aborrito, divenne un obiettivo da raggiungere. Agli editoriali di fuoco contro Verdini o contro il malaffare si sostituirono pensanti analisi che arrivarono persino a giustificare ogni cosa: l’attacco alla Costituzione, allo statuto dei lavoratori, al lavoro come diritto, alla sanità e alla scuola pubblica. Arrivarono i consensi di Marchionne e della Fiat, del gotha di Confindustria, di termebondi editorialisti.

Di Renzi piace ai liberal quel decisionismo senza democrazia che le sa cantare chiare. Stampa interconnessa con editore unico, circoli finanziari e Confindustria si sono fusi producendo un’ideologia mista: quella del bonus elettorale, delle mance, dello smantellamento delle istituzioni parlamentari dopo il quasi annientamento dei corpi intermedi (peraltro deboli e male in arnese).

La stampa, con poche e rare eccezioni, ha fatto da cuscino a ogni incursione di Renzi: lo ha sostenuto nella finta battaglia contro l’Europa o nelle intese di cartapesta sulle portaerei o a Ventotene, nell’assalto al sindacato e alle regole democratiche. Ha oscurato la conflittualità sociale. Sostiene quel capitalismo compassionevole delle mance. Meglio dedicare qualche centinaio di pagine a Virginia Raggi che avrà colpe di suo ma è stata usata come arma di distrazione.

E così al calo progressivo dei consensi del premier della Nazione si è avuto anche un forte, doloroso salasso in termini di copie. La bulimia di potere fa brutti scherzi: tre Tg Rai a sua disposizioni con le relative reti, la non belligeranza di Mediaset, il consenso della grande stampa hanno creato un clima da regimetto che va di pari passo con il conformismo (nonostante nei giornali ci siano giornalisti ecellenti e con la schiena dritta) e con il tentativo disperato di dare il colpo finale col referendum. Ma spesso la storia riserva sorprese.

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