di Vindice Lecis
In Sardegna nel 1948, 40 comuni non ricevevano energia elettrica, in 60 mancavano gli acquedotti, 215 erano privi di fognature, 77 di cimiteri, 222 erano senza mattatoi e 215 di mercati. Nella Sardegna dell’immediato dopoguerra il tracciato ferroviario era di 0,0567 km per chilometro quadrato (contro una media nazionale di 0,0736). Esistevano 0,195 di strade per km quadrato (media nazionale 0,566).
In quegli anni la famiglia di un bracciante agricolo viveva con 300 lire per cento giorni e negli altri giorni dell’anno restava disoccupato. In Sardegna solo il 19% della terra era coltivato. Il contadino arava con l’aratro a chiodo e ricavava appena 7 quintali di grano in media per ettaro, il livello più basso di tutte le regioni italiane. Pascoli permanenti o terre incolte erano il 56% della superficie produttiva.
La proprietà terriera era inoltre divisa in modo diseguale e iniquo. A Urzulei, ad esempio, due proprietari, il Comune e un privato, possedevano il 97,6% delle terre (rispettivamente 11.017 e 1.474 ettari) e il restante 2,4% spartito tra 387 proprietari. A Uras invece un proprietario con 25,52 ettari aveva la sua proprietà divisa in 105 appezzamenti di terreno di cui 20 contigui e i restanti distanti l’uno dall’altro.
Il problema chiave dell’acqua veniva affrontato con piani irrigui per circa 75 mila ettari. Nei bacini l’energia elettrica ricavata era soltanto di 164 milioni di Kwh pari al 6% dell’energia prodotta in Italia. Anche la potenza per kmq ricavabile dai nostri corsi d’acqua era di 6,80 contro una media nazionale di 28,48.
Certo la Sardegna non è più quella descritta ora. Passi in avanti notevoli sono stati fatti, innegabili. Tuttavia è sempre bene conoscere da dove siamo partiti per evitare gli errori fatti e capire i problemi dell’oggi che sono nuovi e drammatici. Dedichiamo un poco di attenzione a questi e altri dati tratti da un libro che raccolse gli atti del Congresso per la rinascita economica e sociale della Sardegna che si tenne a Cagliari il 6-7 maggio 1950. La Sardegna, da poco diventata Regione autonoma e speciale nell’ordinamento repubblicano, in quegli anni viveva una stagione di lotte ampie e piuttosto dure. Si cercava di costruire un’ipotesi di rinascita chiamando a raccolta le forze vive dell’isola che non si rassegnavano a sottosviluppo, miseria, emigrazione.
Quel congresso fu in effetti qualcosa di straordinario e mai più ripetuto. Al teatro Massimo di Cagliari confluirono mille delegati eletti nei trentun convegni preparatori o designati da organizzazioni sindacali, politiche, economiche e da amministrazioni locali. Gli invitati erano oltre tremila. L’idea originaria era stata delle Camere del lavoro di Sassari, Nuoro e Cagliari.
Fu una festa di autonomia, lotta e orgoglio. “Centinaia di donne e di giovani sardi – si legge nell’introduzione del libro – che indossavano i tradizionali costumi della Barbagia e del Campidano hanno recato al congresso doni simbolici ed azzurre bandiere di pace. Altre bandiere di pace hanno recato le giovani staffette dai centri minerari precedendo il lungo corteo di mille operai di Carbonia e di Iglesias”. Quel giorno fu l’occasione giusta perché il movimento democratico e autonomistico mettesse in campo la sua forza, le sue classi di riferimento e definisse alcuni programmi. D’altra parte era quello che chiedeva la Cgil di Giuseppe Di Vittorio nel suo Piano del lavoro.
Le due giornate furono intense. Dopo l’elezione e l’insediamento della presidenza i lavori si incentrarono su quattro relazioni riguardanti il Piano di rinascita e i problemi dell’industria, dell’agricoltura e della organizzazione civile della regione. Nella serata del 7 maggio nella piazza del Carmine si tenne una festa popolare e un comizio con gli interventi tra l’altro di Emilio Lussu, Leonida Repaci, Velio Spano, Giorgio Amendola e Luigi Longo.
A rileggere le relazioni, le schede, gli interventi e la mozione conclusiva non si può che restare ammirati dalla volontà delle forze sociali dell’epoca di voler far uscire la Sardegna dal sottosviluppo. Nessuna idea di separatismo ma progetti e idee che camminavano su lotte e mobilitazioni dentro l’ordinamento repubblicano. Si rilanciava l’istituto autonomistico appena sorto e si spingeva la creazione del movimento per la Rinascita. Emilio Lussu nel discorso di apertura ricordò perfino l’esempio di Giovanni Maria Angioy che “con i contadini e i pastori portò il popolo sardo ad affermare che la terra non era dei baroni ma del popolo sardo.
Arrivarono anche i messaggi dei detenuti politici, protaonisti delle lotte bracciantili e dei pastori, come Antonio Francesco Branca, Alfredo Torrente, Sebastiano Dessanay e Achille Prevosto. E giunsero a dimostrazione dell’unità tra lavoratori di tutta Italia con la Sardegna, delegazioni della Cgil di Roma, Ravenna, Ferrara, Milano, Bologna, Reggio Emilia, Genova e rappresentanti delle Officine Galileo di Firenze, della Fiat Mirafiori e dell’Udi di Torino.
Oggi la Sardegna vive una crisi sempre più drammatica. L’istituto autonomistico è svuotato, la disoccupazione tra le più alte d’Italia, l’isolamento sempre più marcato, i trasporti interni insufficienti, la sanità minacciata ogni giorno da tagli e privatizzazioni, la pastorizia in crisi e le industrie chiuse. Inoltre il presidente della Regione sembra più attento alle dinamiche nazionali e preoccupato di non disturbare il centralismo del governo al punto da non ricevere nemmeno una delegazioni di 300 sindaci.
Servirebbe ritrovare ora lo spirito di quegli anni per una nuova spinta autonomistica, (ricordando quanti errori e quante illusioni sono state create in suo nome) con un nuovo impulso di lotte e mobilitazioni, di progetti di governo per ridare speranza. No a carrozzoni, tecnicismi, professoroni fallimentari. O la Sardegna continuerà ad arretrare e ad andare alla deriva.
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