di Vindice Lecis
Che cosa è un regime? E’ quel luogo dove un premier, come fece Caligola col suo cavallo Incitatus, può nominare senatori semplicemente indicandoli in un comizio (Pigliaru e Zedda futuri senatori, ha sentenziato Renzi arrotolandosi le maniche della camicia bianca mentre camminava inesausto sul palco del Palacongressi di Cagliari). Un regime è anche quel luogo dove il presidente della Dinamo Basket può allegramente portare in dote a un’iniziativa di partito – e non istituzionale – gli amati Giganti per poter regalare la maglia – naturalmente numero 1 – al presidente del Consiglio. E ancora il regime è quel luogo dove si firmano “Patti” con sindaci in cambio di pronunciamenti per il Sì come è accaduto a Cagliari e al suo sindaco Zedda, folgorato dall’impalpabile giovanilismo del premier e dal suo progetto di Partito della Nazione.
Ecco che il regime, fatto di minacce e promesse vaghe, si è presentato in Sardegna con una visita di Renzi di poco meno di due giorni. Visita elettorale, un disperato serrare dei ranghi, che alla prova dei fatti, sarà ricordata per la lunghissima serie di bugie, gaffes, promesse, esibizione di clientes come poche volte avevamo avuto modo di assistere. E questa visita, col seguito nervoso di deputati, sindaci in bilico, amministratori di aziende, confindustrie e aspiranti a posti di sottogoverno, potrebbe trasformarsi in un autentico autogol.
L’attore principale era Renzi, d’accordo. Ma i due comprimari d’eccezione di questa visita hanno i nomi importanti di Francesco Pigliaru e Massimo Zedda. Il primo, presidente di una giunta regionale che sembra un consiglio di facoltà universitaria, molte chiacchiere e distintivo. L’altro, invece, rampantissimo sindaco di Cagliari che ancora non ha detto come voterà il 4 dicembre (anche se lo ha fatto capire, volpino come Pisapia). Comunque due modi diversi e complementari di intendere il renzismo-regime.
La Nuova Sardegna del 17 novembre ci racconta che i due erano seduti “in prima fila, uno al fianco all’altro” al comizio di Renzi a Cagliari. Da lui però hanno avuto il vero grande riconoscimento: sono stati indicati come “i rappresentanti sardi in un Senato che non farà più le leggi ma amplificherà voci e richieste dei territori”. Un Senato trasformato a sala delle udienze dei sovrani, o poco meno, ma formato da nominati, questo è certo. Nessun riferimento al fatto che la “riforma” è fatta col buco e che se vincerà il Sì cinque Regioni, compresa la Sardegna, non avranno rappresentanti perché occorrerà cambiare le regole statutarie. Piccolo impedimento che i costituenti Boschi-Verdini non avevano preventivato.
Pigliaru gongolava, come quegli scolari secchioni che sanno di essere di gran lunga i cocchi del professore. Ma era Zedda ad essere raggiante, tutto compreso nella parte del finto monello utilizzato per riportare le pecore di sinistra nell’ovile del Pd (quale sinistra? Ma diamine quella vincente, che non si chiude in sterili orticelli identitari, che è concreta, ed è pertanto alleata del Pd. Insomma la linea di Gennaro Migliore e di qualche suo sodale senatore sardo). Perché il sindaco di Cagliari che ha voltato le spalle alla sinistra e si appresta a lasciare i soffici lidi del So o del Ni (utili al più per qualche titolo di giornale) e dirigersi verso il sostegno alla riforma. E’ lui il vero interlocutore di Renzi, tramite il fedelissimo Luca Lotti proconsole sempre assiduo in Sardegna. Giustamente la Nuova ci informa che “le battute hanno sfiorato il cameratismo”. I due si piacciono, è evidente. Stessa pasta.
Balle se ne sono sentite tante, troppe. Una su tutte: quella sulla tassazione azzerata per chi assume al Sud. Non è bastata la disastrosa decontribuzione del jobs act, fiumi di miliardi (miliardi!) per un po’ di assunzioni seguite, subito, da altrettanti licenziamenti. No, si insiste nel fallimento. Renzi non sa fare altro: riproporre la politica delle mance, dei bonus, degli aiutini che hanno lo scopo di lucrare consensi immediati.
“Prima di Pigliaru la Sardegna stava peggio” ha detto il premier. Dove lo ha letto, ha consultato tabelle a noi sconosciute? Eppure lo hanno applaudito a Cagliari per questa cambiale pagata a favore del professore sassarese. Ricambiava i pronunciamenti del “governatore” liberista, il Mario Monti al pane carasau, nei referendum sulle trivelle e specialmente per quello in arrivo del 4 dicembre. Pigliaru è un economista preparato eppure ascoltava rapito quando Renzi sparava enomità del tipo: la cancellazione di tutte le tasse per le assunzioni del prossimo anno.
Prima di partire per Sassari, la roccaforte dove sono acquartierati i suoi fedelissimi in quel “ridotto della Valtellina” vagheggiato dal gerarca Pavolini nelle ultime raffiche di Salò (andate a rileggere un libro di storia), Renzi ha firmato il sorridente patto con Cagliari. Sorridente perché in tutte le foto Renzi e Zedda appaiono allegri, positivi, ottimisti. Sodali e complici, direi. Il Patto per l’area metropolitana prevede per Cagliari e i 17 comuni dell’hinterland 168 milioni di euro. Ma ancora non si capisce bene dove andranno e a che cosa serviranno in concreto. L’importante è annunciare poi tanto con Zedda ci vediamo nel nuovo senato.
A Sassari l’apoteosi del regime è esplosa in tutta la sua icastica rappresentazione. Un clima di fervore operoso. Mezza città in stato d’assedio, decine e decine di auto blu all’esterno del Verdi gremito. Sfoggio di potere che, si sa, crea consenso e incute timore. Renzi, leggiamo, era un po’ fuori forma, arrochito. Aveva già dato fondo alle televendite, ma poi ha recuperato. Ha arruolato Dossetti e Nilde Jotti nella compagnia del Sì (due costituenti che, a suo dire, appena fatta la Costituzione, non vedevano l’ora di cambiarla) ma è stato vaghissimo sulle questioni della Sardegna affidandosi nelle sue parole a investimenti cinesi e del Qatar. Su una delle questioni centrali per il Nod Ovest dell’isola, quella dell’aeroporto di Alghero agonizzante, non si è capito un granchè, scegliendo – come si fa quando non si ha nulla da proporre – di salvarsi in angolo con la parola magica, salvifica e misteriosa, di “innovazione”. Nel frattempo l’aeroporto è un deserto. (A proposito, curioso che il sindaco di Alghero, Mario Bruno fosse al Verdi ad applaudire dopo aver dichiarato il suo Sì, tipica pratica dorotea da sindrome di Stoccolma).
La palma del peggiore? I candidati non sono pochi. Come in tutti i regimi o regimetti c’è sempre il più zelante, quello che vuole mettersi in mostra. Forse la palma spetta a Stefano Sardara, presidente della Dinamo basket che ha fatto schierare mezza squadra sul palco del Verdi. Si badi bene non sul palco di un’iniziativa istituzionale ma di un partito di governo con dietro le spalle un Sì immenso. Una caduta di stile e un autogol che non può essere spiegato col claudicante comunicato della società. E nemmeno con la giustificazione data dal sindaco pro tempore di Sassari, Nicola Sanna (apprendiamo che Nicola è stato definito cuperliano, ma prima pare che fosse stato avvistato dalle parti del povero Orfini, l’importante è muoversi, non stare fermi), comunque entusiasta sostenitore della deforma costituzionale. La pagina facebook del sindaco, reduce da due impegnative faradde dei Candelieri, è stata presa d’assalto con centinaia di critiche non troppo carine dopo un selfie scattato al Verdi dove appare con il suo consueto, ammirevole, sorriso.
Se dovessimo scegliere invece la battuta più comica tra le tante lette, ecco che ci viene in soccorso Bruno Dettori. Chi è? Diamine, è un ex senatore di lungo corso: ex Dc, ex Patto Segni, ex Margherita ora iper renziano. Che cosa ha detto al Verdi ai giornalisti? Che “il vero sgambetto al potere lo tiriamo noi”. Marchionne, Confinustria, Jp Morgan, Merkel, Obama e tutto il potentume finanziario e politico che cosa sono invece? Bolscevichi?
Dopo queste iniziative dove la commistione tra stato e partito (tipico dei regimi più o meno morbidi) è apparsa evidente e scandalosa (un ping pong da Xi Jimping a Zedda, dai vertici istituzionali ai comiziacci di partito), Renzi si è finalmente concesso ai sindaci. Lo ha fatto, escludendo i giornalisti, in una saletta dell’aeroporto di Alghero. Non si sa bene che cosa si siano detti in privato. C’era in prima fila il governatore Pigliaru che, solo pochi giorni prima, non aveva ricevuto i primi cittadini sardi in corteo che chiedevano una deroga al bilancio armonizzato e attenzione per le disastrate zone interne.
La due giorni si è conclusa lasciando un senso di fastidiosa incompiutezza e di desolazione, come foglie cadute in autunno. Sui parabrezza delle auto ci sono ancora i volantini che annunciano l’adunata del Verdi. Xi Jinping è già lontano. L’aeroporto di Alghero sembra una landa desolata. I disoccupati sardi aumentano di numero. E Pigliaru e Zedda aspettano la chiamata nel Senato del dopolavoro. Dove troveranno Incitatus ad attenderli.
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