di Vindice Lecis
Me lo ricordo ancora quel giorno a Sassari. Era il 1973. Il salone era affollato di gente sorridente arrivata da ogni centro della provincia. I ritratti di Gramsci e Togliatti, una copia de L’Ordine Nuovo e del primo numero de L’Unità appesi alle pareti bianche. Odore di tinta fresca. Le sedie di plastica nuove. Aria di festa e soddisfazione. Il giorno di cui parlo era quello in cui si inaugurava la nuova sede della federazione comunista sassarese, in via Mazzini. Quella dove oggi c’è il Pd.
Al tavolo della presidenza stavano il segretario provinciale Salvatore Lorelli, il presidente della commissione federale di controllo Luigi Polano fondatore del Pci nel 1921, il vice presidente della commissione centrale di controlllo Salvatore Cacciapuoti, iscritto dal 1931 che era stato segretario della federazione napoletana, simpatico ma severissimo. E poi c’era lui, Enrico Berlinguer. Non poteva mancare in quella giornata di festa per i comunisti sassaresi che ora avevano una sede di proprietà al secondo piano di uno stabile nuovo e bello (e assai borghese), tra via Roma e piazza d’Italia, trasferendosi dall’appartamento in affitto di Piazza d’Italia con i pavimenti di legno traballanti (dove restò la Fgci e la sezione Gramsci) e le pareti impregnate di fumo acre. Quella nuova sede era il frutto di una lunga e meticolosa campagna di sottoscrizione. Così come era accaduto e succedeva in tutta Italia.
Perché racconto questo episodio? Perché leggo sul Corriere della Sera che il Pd – già abusivamente ospitato nelle stanze di moltissime sedi appartenute al Pci, poi al Pds e infine ai poveri Ds – vuole mettere le mani sul patrimonio del vecchio Partito comunista italiano. Lo annuncia il tesoriere renzianissimo del giglio magico, Bonifazi, che parla di una class action di ex iscritti ai Ds. Personalmente lo considero un oltraggio oltre che una vicenda penosa e illegale. Penosa perché quel partito nulla a che fare – per storia, struttura, etica, programma – con il disciolto Pci. Illegale perché gran parte di quel patrimonio, dopo la confluenza di Ds e Margherita in quella brodaglia che è il Pd, è per fortuna (e saldamente) nelle mani di Fondazioni che hanno messo in sicurezza qualcosa come 2400 immobili e più di 400 opere d’arte. Fondazioni dirette centralmente dal senatore Sposetti che vigila perché la svendita, la liquidazione, la dissoluzione non avvenga. Sarebbe un nuovo oltraggio (dopo la Bolognina, detto col senno di poi).
Molti non lo sanno, o lo hanno scordato. Ciascuna sede di federazione, di sezione, di circolo, di Casa del popolo (e anche di Camera del lavoro) sono stati acquistati – o costruiti, sì proprio costruiti mattone su mattone – col sacrificio, la passione, l’abnegazione di centinaia di migliaia di iscritti e di cittadini.
Perché il Pci si autofinanziava. Un esempio: il bilancio del 1972. Prevedeva entrate per poco meno di 7 miliardi. Dal tesseramento ne entravano circa 2 e mezzo, uno e mezzo arrivava dai parlamentari (che oggi pagano invece una specie di mutuo per essere candidati), e 3 affluivano dalla sottoscrizione. Eccola, appunto, la sottoscrizione. Era il momento, l’estate delle feste de l’Unità, in cui il partito e la federazione giovanile raccoglievano i soldi per il giornale, in perenne sofferenza ma grandemente amato e diffuso. Nelle federazioni, dal segretario sino all’ultimo iscritto, ciascuno aveva un obiettivo. Un grande cartellone campeggiava nell’ingresso delle sedi con i nomi di dirigenti, consiglieri comunali, provinciali e regionali, parlamentari con a fianco il relativo obiettivo. Un’altra casella registrava l’aggiornamento. E alla chiusura della stagione delle feste i conti dovevano tornare. La chiamavano emulazione, si cercava di fare di più e meglio. Era una straordinaria occasione per parlare con i cittadini in un rapporto continuo e costante che non era solo finalizzato alle campagne elettorali.
Il Pci poi rendicontava tutto. Sempre nel 1972, di quei quasi 8 miliardi di entrate, 1 miliardo e 600 milioni andavano a contributi alle federazioni e ai comitati regionali, un altro miliardo per le attività centrali (propaganda, scuole di partito, viaggi). E poco meno di 4 miliardi e mezzo tornavano, a norma di statuto, alle federazioni e a l’Unità. E poi c’erano le sedi, centri di aggregazione politica e democratica, spesso gli unici in certi quartieri. Quell’enorme patrimonio ora è blindato. D’altra parte la Margherita di Rutelli ha fatto altrettanto. Renzi e i suoi vogliono ora sferrare l’ultima spallata. Dimenticando che le fondazioni private dai nomi evocativi (Berlinguer, L’approdo, Primaro, Rinascita, Longo, Bella Ciao e chissà quali altri) hanno consentito che anche un immenso patrimonio di storie e di memorie non andasse disperso. Le bandiere rosse conservate dentro teche o i ritratti di Berlinguer sorridente in quelle sedi del Pd mentre il governo Renzi distruggeva lo statuto dei lavoratori, la scuola pubblica e voleva manomettere la Costituzione sono davvero un oltraggio troppo grande.
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