di Vindice Lecis
Renzi si dimette ma, immediatamente, si ricandida. Cerca la rivincita dopo pesanti rovesci. La linea, la sua linea, dunque non cambia. E’ questo il messaggio che viene dal Pd. Un partito indebolito, autoreferenziale e impaurito. Alla ricerca disperata di un nemico interno. Tremebondo nell’aprire le finestre e guardare per strada, incapace anche di ripercorrere il decennio di cammino dove il tratto distintivo è stato solo il superamento dell’idea di giustizia sociale, di equità ed eguaglianza. Non capire che il Paese – non D’Alema o Rossi – ha respinto politiche, scelte e atteggiamenti è, infatti, un segno di involuzione gravissima. Ed è bene che i giornali-partito ne prendano atto.
L’assemblea del Pd ha infatti confermato che il partito è giunto al capolinea. Un misto tra il circo Barnum – così Gramsci appellava il vecchio Psi – e l’immagine sbiadita di uno stato maggiore smarrito. Con poche truppe. Dove quelle rimaste appaiono stanche e non ricevono indicazioni dai loro generali. Se non lacrimose esortazioni allo stare uniti che non è propriamente un programma politico del XX e anche del XXI secolo.
Poche note. La prima – dopo aver seguito tutti gli interventi e, naturalmente, la relazione di Renzi – è che non si sfugge al senso di disagio e di straniazione per l’assenza di analisi e di autocritica dopo le ripetute sconfitte dei democratici. Un muro è stato alzato – la definizione è di Bersani – su tutto ciò che le sparse minoranze, pur in modo confuso, chiedevano: cioè un confronto su che cosa sia diventato il Pd. Nella sbrigativa e superficiale relazione di Renzi è mancato un motivo interpretatore della realtà e della crisi italiana. Nulla, ad esempio, sul disastro referendario – vero spartiacque –, molto invece sul suo triennio di governo, causa prima dei tracolli, sul quale si sono spenti ingloriosamente i riflettori. Un discorso che ha respinto qualsiasi ipotesi di spostamento di assetto del Pd e che è servito, invece, a ringalluzzire stanchi e spaventati reggimenti. Al posto delle analisi molti conueti riferimenti a canzoni, a poeti e accenni di battute spiritose.
La seconda questione riguarda l’ecclettismo. Epifani a nome della minoranza, ma anche Rossi e, persino Damiano, hanno posto il problema che il Pd col jobs act ha compiuto una schifezza. Intendiamoci: tutto il Pd ha appoggiato quella “riforma” che toglie diritti, riduce gli ammortizzatori, precarizza il lavoro e lo mercifica e che ha riempito le tasche degli imprenditori. Ma alla luce dei risultati, molto negativi, qualcuno almeno ci ha riflettuto. Ebbene, possono nel Pd convivere i fautori della demolizione dell’articolo 18 e quelli che, ora, dicono che è stato un errore? Possono stare nello stesso partito i renziani entusiasti che hanno benedetto la linea filo-Confindustria e quelli che dicono di stare invece con la Cgil?
La terza questione è l’equivoco sull’idea di sinistra e sulla vocazione maggioritaria. L’intervento di Veltroni ha contestato i possibili scissionisti e ha persino rivolto un buffetto al segretario. Ma il concetto che della sinistra hanno Veltroni – e con lui Fassino, la componente che viene dai Popolari ma anche dai Ds – è infatti tenue, impalpabile, si confonde nelle nebbie di una generica modernità, smemorata sui temi del lavoro – la vera questione – tesa a spostare di continuo le colonne d’Ercole e assomigliando per questo a quell’altra famiglia europea dei popolari. Non si affronta il nodo della ferocia della globalizzazione, non si comprende il ruolo così debole dell’Europa.
La scissione si farà? Non è dato capire. Tuttavia la sequenza equivoca del partito del ma anche sta concludendosi. E, quando chiederanno il voto, non servirà agitare la paura di Le Pen, Grillo o Trump. Basteranno le politiche del governo Renzi a tenere distanti gli elettori.
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