di Vindice Lecis
Il sistema Marchionne per trasformare l’Italia in una caserma, scattò il 23 dicembre 2010. Quel giorno Fim, Uilm, Fismic e Ugl firmarono il noto accordo separato senza la Fiom sulla riorganizzazione di Mirafiori. Che seguiva un’analoga intesa siglata a Pomigliano che aveva prodotto lacerazioni profonde che, ancora oggi, sono aperte. Era un ritorno agli Anni Cinquanta. Ciò che succede a Torino, si diceva un tempo, anticipa quello che accadrà nel resto d’Italia. E quell’accordo, il primo di una serie, sanciva non solo la vittoria padronale ma inaugurava un sistema di relazioni industriali tipo prendere o lasciare, un peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche e la perdita di alcuni diritti. E apriva la strada a scelte politiche sull’austerità, il pareggio di bilancio, lo Statuto dei lavoratori e la Carta Costituzionale. Si rafforzò il legame tra la Fiat di Marchionne e l’allora centro sinistra con il tifo entusiasta di quasi tutta l’informazione, che vedeva nell’Ad della Fiat una sorta di profeta castigamatti. L’uomo della provvidenza col maglioncino e la residenza in Svizzera, ringraziò l’Italia spostando successivamente all’estero le sedi legale e fiscale di Fiat-Fca.
Il 13 e il 14 gennaio 2011 si tenne il referendum tra tutti i lavoratori di Mirafiori. Vinsero, di misura, i favorevoli all’accordo. Fu aperto un varco enorme a un quinquennio di devastanti relazioni sindacali che comunque prefigurarono stagioni politiche opache. Fino al successo effimero di Matteo Renzi che, però, riuscì a mettere all’attivo due risultati, sui quali i poteri finanziari comunitari e la Confindustria puntavano da tempo: le devastazioni del mercato del lavoro e della scuola pubblica. Un piano che ha avuto – la cronaca tende a bruciare ogni avvenimento in poche ore ma la storia ne valuterà pienamente l’importanza – una battuta d’arresto con il NO al referendum costituzionale.
Vissi quei giorni torinesi come cronista, inviato a Mirafiori per raccontare cosa stesse accadendo nell’ex santuario operaio. “Se cedi un dito ti prendono un braccio” mi dicevano i delegati Fiom incontrati nel baretto operaio davanti a Mirafiori e i sindacalisti Fiom della Quinta Lega. Il clima era pesantissimo, le pressioni e i ricatti sui lavoratori pressanti e sfacciati. E l’informazione che picchiava duro, come era successo qualche anno prima con i camalli di Genova. Da una parte la Torino di Piero Fassino, della Fiat e del potere creditizio. Della presunta modernità ottocentesca. Dall’altra, ciò che restava della forza e della dignità operaia, con ben pochi alleati. Di questo si trattò. Furono giornate durissime per la fabbrica. Seguivo i volantinaggi davanti ai cancelli, le reazioni degli operai, osservavo i capannelli, ascoltavo tutti. C’era tensione e rabbia. E anche rassegnazione e impotenza di fronte ai ricatti.
L’accordo della vergogna, come lo aveva definito la Fiom, prevedeva la cancellazione del contratto nazionale dei metalmeccanici, il taglio delle pause per il riposo, la disdetta di accordi sulle prestazioni lavorative, l’inserimento di turni da 10 ore, la penalizzazione in caso di malattia. E inoltre la cancellazione delle rappresentanze sindacali elette dai lavoratori sostituite da organismi dei soli sindacati firmatari. In cambio promesse, vaghe, di investimenti in gran parte disattesi. Il sociologo torinese Luciano Gallino, in diverse interviste, mi disse che la nuova metrica del lavoro era in pratica la rivincita del padronato sulla classe operaia torinese e italiana.
La Fiom perse, con onore, ma fu comunque sconfitta. L’accordo aprì una stagione fortemente negativa per l’Italia. Convulsa e, a tratti, avventurista. Trichet e Draghi, rispettivamente il presidente della Bce e il successore, inviarono all’allora premier Berlusconi la famosa lettera dell’agosto del 2011. Chiedevano una piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e di quelli professionali, privatizzazioni su larga scala, la trasformazione del mercato del lavoro, contratti aziendali in luogo di quelli collettivi nazionali, una stretta sui conti. Il governo varò una manovra pesantissima da 45 miliardi per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013.
Pochi mesi dopo, dentro la piena tempesta sullo spread (ricordate?), Berlusconi era costretto alle dimissioni e il 16 novembre il senatore a vita Mario Monti faceva il suo ingresso a Palazzo Chigi col sostegno di Pd e destra. Al suo attivo, si fa per dire, il primo sgretolamento dell’articolo 18, la stagione dell’austerità e la devastante riforma pensionistica. Monti durò un anno. Dopo le elezioni del 2013, quelle non vinte da Bersani, Napolitano non mollò sulle larghe intese e mandò in campo Letta, il cui governo restò in carica dal 28 aprile 2013 al 14 febbraio dell’anno seguente. Nel frattempo Bersani si era dimesso e Renzi aveva scalato il Pd. Un leader controverso ed estraneo alla storia della sinistra che, da Napolitano, ricevette l’incarico di formare un nuovo esecutivo con l’obiettivo di cambiare la Costituzione, rifare la legge elettorale e rispettare la disciplina di bilancio. La conclusione del lavoro cominciato nel 2011 dalla Bce andò avanti con successo: via l’articolo 18, precarietà come sistema, scuola pubblica a pezzi, ambiente violentato con lo Sblocca Italia, bonus a raffica, distruzione delle relazioni con i corpi intermedi. Legge elettorale truffa bocciata dalla Consulta. Così come la revisione costituzionale, ma dagli elettori.
Ecco perché quei gelidi giorni di Mirafiori del 2011 ci parlano dell’oggi. Il vincente modello Marchionne non colpiva solo gli operai riaffermando il dominio del “padronato”, ma riguardava l’Italia intera. Quel sistema aprì la strada al governo dell’avventura di Matteo Renzi, un pericolo ancora vivo.
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