di Vindice Lecis
La voce del cancelliere risuonava alta e forte nella corona de judike riunita a Torres, davanti alla cattedrale di San Gavino. Leggeva la lunga lista di nomi dei servi che erano stati chiamati a rendere conto della loro richiesta di diventare affittuari. Il giudice Gunnari II, della famiglia Lacon-Gunale, lanciò uno sguardo preoccupato al maiore de ianna, Gosantine Palas che assisteva all’udienza come testimone. Il capo della sua guardia restò impassibile, così come tutta la kita de buiakesos che l’accompagnava. Il sovrano osservò scettico ancora quelle decine di pergamene strappate, unte e lise, che erano state poggiate sullo scrittorio del cancelliere.
Davanti a lui, si accalcava una folla di servi che, scalzi e con addosso tuniche logore, attendevano il giudizio. Il cancelliere gli indicò colui che sembrava essere il capo di quella sedizione non violenta. Che, se non arginata, avrebbe indebolito l’ordine sociale legato alla proprietà della terra e all’esistenza stessa della servitù. Petru de Mukianu era lì, con i figli Gosantine, Istephane e Comita. Tenevano gli occhi bassi, immobili e intimoriti. Con loro, un’ ottantina di capi famiglia accompagnati da mogli e figli. In tutto oltre duecento persone, tutti servi e ankillas appartenenti al monastero di San Pietro. Come Mariane Arte, Petru d’Ockeri, Justa Parithe, Gariluttu con i figli, Furatu Solina e molti altri. Umili braccianti, occupati nelle immense proprietà fondiarie del muristene e che avevano deciso di sfidare l’autorità dell’istituzione benedettina più potente dell’isola.
Il vivido racconto del Condaghe di San Pietro di Silki (quello tradotto e curato da Ignazio Delogu per Dessì nel 1997) ci ha descritto un momento di lotta di classe nel medio evo sardo. Quei servi, in pratica, chiedevano di diventare liberi affittuari e affrancarsi dalla condizione di servi, fossero essi interi, laterati o pedati (cioè di proprietà di uno, due o quattro padroni). E una mattina di fine agosto era scattata la rivolta: avevano incrociato le braccia, rifiutandosi di lavorare sulle terre dell’abbadessa Massimilla, dichiarandosi liberi. Si trattava di una sorta di sciopero che metteva in discuissione l’odine eterno delle cose.
Dissero chiaramente, costoro, che volevano cambiare la propria condizione e non servire più il monastero. Quando la potente abbadessa lo venne a sapere andò su tutte le furie. Una rivolta della gran parte dei servi del muristene era insostenibile, non solo per il patrimonio delle benedettine ma anche per l’intero ordinamento sociale esistente. Cercò sicuramente di dissuaderli, forse con minacce. Ma i servi confermarono di non avere nessuna intenzione di lavorare ancora con il monastero di San Pietro come già facevano i loro genitori. E, anzi, confermarono di avere delle carte in mano che confermavano la propria condizione di liberi.
La rivolta non voleva mettere in discussione l’intero sistema, non ne avrebbe avuto la forza, ma soltanto ottenere un miglioramento delle condizioni di vita, certamente durissime. E, per farlo, tutti i mezzi erano leciti. Forse anche quello di una falsificazione o alterazione delle carte. I servi del XII secolo (in questo caso tra il 1130 e il 1147) avevano già sviluppato anche una politica delle alleanze: qualcuno che sapeva leggere e scrivere, forse persino un ricco istruito, aveva ritoccato i documenti.
Massimilla cominciò però a tessere la sua trama. Citò tutti i servi al tribunale del giudice e affidò la difesa degli interessi del monastero a donnu Mariane de Maroniu, curatore della Romangia. Si mosse la potente badessa anche per creare un clima ostile nei confronti dei rivoltosi, contattando sicuramente altri majorales per evitare che la febbre della rivolta potesse divampare anche in altre curatorie del Giudicato.
Il giorno dell’udienza, a settembre, i testimoni dell’accusa presero posto davanti al giudice Gunnari. Massimilla e il priore donnu Furatu Gaspis lanciarono sguardi d’intesa agli altri personaggi dai cognomi altisonanti come Comita de Gunale, Petru de Lacon, Ithoccorre de Lacon, Comita de Lacon, Saltaro Pinna, Petru Pinna, Dorgotori de Ponte, Gosantine de Varca, Gunnari de Thori, Dorveni de Carbia, Ithoccorre de Thori, Gosantine de Thori. Oltre a Gosantine Palas, capo della guardia con alcuni dei suoi uomini. Dall’altra parte del grande spazio davanti alla basilica stava la massa dei servi e ankillas, i braccianti in attesa di giudizio.
Soffiava una brezza dal mare che allontanava il ricordo dell’estate e annunciava il tempo dell’annata agraria. I servi presentarono le loro carte consegnandole al cancelliere. Il quale le passò per visione a Gunnari e alla corte. Molti tra coloro che appartenevano alla classe ricca, non sapevano leggere o scrivere. Il giudice aveva imparato durante la permanenza in esilio a Pisa qualche anno prima (tra il 1127 e il 1130), anche se la sua firma su un atto di donazione alla potente repubblica, di corti, servi, miniere era apparsa assai incerta. Le carte comunque passarono di mano di in mano. Il cancelliere lesse, controllò, analizzò.
– Gitteu bos inde paret d’ecustas cartas? – chiese a un tratto il giudice Gunnari.
– False ci sembrano e non sono credibili – risposero i majorales e i curatori presenti.
Ma Gunnari voleva andare avanti con i piedi di piombo. Dopo aver spezzato la sedizione della famiglia Athen stava rafforzandoa l’alleanza con Pisa. Ma allo stesso tempo lavorava per la pacificazione del regno con il mantenimento di una parvenza di coesione sociale. La corte era rimasta ad Ardara, alternandosi con Torres, anche se il sovrano trascorreva del tempo nell’imprendibile rocca del Goceano che fronteggiava le mire espansionistiche del vicino giudicato di Arborea, governato da Comita III, un alleato dei genovesi. Per Gunnari dare troppo spazio alle esigenze dei possidenti, e tra questi sicuramente il monastero di San Pietro di Silki, fiorente e influente, avrebbe significato accettare un eccessivo condizionamento.
Decise di prendere altro tempo. E fissò una successiva udienza, una sorta di proceso d’appello, sei mesi dopo. Non era mai accaduto prima. In pratica chiese ai servi di portare nuove carte, questa volta più credibili, per dimostrare le proprie ragioni. Lo sconcerto s’impadronì dei majorales presenti, abituati ad avere sempre ragione. Ma la badessa Massimilla non si perse d’animo e lavorò per dividere la compattezza dei suoi servi. Individuò colui che non aveva partecipato alla pacifica rivolta e lo convinse a testimoniare.
Sei mesi dopo, la primavera sarda esplodeva in un turbinio di colori e odori. Alla festa di Sant’Elia, sul Monte Santo, venne convocata una nuova corona de judike. Il sovrano si presentò al kertu con tutta la corte, dai buiakesos al maiore de camara che teneva i cordoni della borsa del demanio. Quel giorno era festa sul grande pianoro, così faticoso da raggiungere e dal quale si godeva la magnifica vista di gran parte del regno. Arrivò anche donna Massimilla a cavallo, accompagnata dal curatore Mariano de Maroniu e dal priore Furatu Gaspis. Quando l’udienza ebbe inizio furono chiamati i servi a testimoniare. Ma nessuno dei rivoltosi si presentò sul Monte Santo. Cominciò così una lunga attesa. Gunnario voleva ancora evitare una vittoria assoluta dei majorales e prese ancora tempo.
– Di questi uomini, per i quali fa lite San Pietro di Silki, che ormai ho convocato in più di una corona e non sono venuti, che cosa volete che ne faccia?
Un’espressione di sconforto si dipinse sul volto dei nobili. Perché questa incertezza? I servi dopo aver prodotto documenti dubbi e per questo riconvocati sei mesi dopo non si sono presentati. Ammissione grave di colpa. E che cosa faceva il sovrano? Chiedeva ancora tempo!
Gunnari fu però irremovibile. Si ritirò in preghiera nella chiesetta di Sant’Elia guardata dai suoi fidati buiakesos armati di verruda e virga sardisca. Non è improbabile che il maiore de ianna Gosantine Palas abbia a un certo punto ricevuto le lamentele dei majorales e del procuratore del monastero. E che costoro, al calar delle tenebre, abbiano chiesto conto delle prossime mosse del sovrano.
– Donnu, gitteu nos fakites? – gli chiesero infatti con tono ultimativo e quasi irrispettoso.
Il giudice allora dispose il proseguimento della corona e Massimilla giocò la sua carta vincente: come teste presentò Gosantine da Monte, servo di San Pietro. Costui giurò sulla croce che i suoi compagni di lavoro che avevano fatto lite col monastero “sono figli di servi della famiglia di san Pietro e non sono stati liberati”.
Gonario II stremato, fu costretto a cedere. Aveva fatto decantare la situazione con un atteggiamento dilatorio, ma di fronte al servo “collaborazionista” che con la sua deposizione aveva consentito di far pendere la bilancia dalla parte di san Pietro, emise la sentenza con un pizzico di irritazione:
– Da ora in poi adoperateli tutti questi servi che si erano dati per liberati di San Pietro e non avevano portato le carte alla corona dove erano stati citati”.
E il giudice, figlio del grande Costantino I, aggiunse infastidito che “se a partire da questo momento porteranno le carte, valide o false che siano, non sono da credere”.
Nel Condaghe di San Pietro, Massimilla stilò una cronaca viva e assai poco burocratica dove fece rivivere le tensioni e i contrasti, anche col giudice Gunnari. In fondo alla scheda la potente abbadessa elencò “i nomi di quelli che mi si erano ribellati come liberati”. Dunque, i vinti. Scorrere i nomi di questi servi, protagonisti della rivolta sociale non violenta ma a colpi di carte bollate, è come immergersi nella storia – ruvida e dura ma per niente oscura – del medio evo sardo nella sua fase di autonomia statuale e inserita pienamente in un contesto internazionale. Antichi eroi sconosciuti. Certamente un piccolo posto nella lunga storia del riscatto umano troveranno Petru Mukianu e Mariane Tillis, Justa Tussia e Gosantine Piticu, Petru de Soiu e Dorgotori Savitanu, Mariane Cocone e Susanna Carta e tanti altri. Ebbero il coraggio di far tremare l’ordine sociale che sembrava immutabile.
(questo mio testo, ora ampiamente rivisto, è una libera interpretazione della scheda 205 del Condaghe di san Pietro di Silki, ed è stato pubblicato nel 2011 dal sito sardegnamediterraneo.it del professor Giuseppe Meloni)
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