Che cosa ci dice oggi Enrico Berlinguer (eredità, grandezza e solitudine del leader comunista)

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di Vindice Lecis

Sono trascorsi 33 anni dalla morte di Enrico Berlinguer. Nel frattempo, una generazione diventata adulta non lo ha conosciuto. E se, talvolta, ne ha sentito parlare è stato nel modo stucchevole e mieloso, tipico di un appiattimento rievocativo legato agli umori e alle convenienze del momento. Il film di Veltroni, ad esempio, ne è stata la più chiara dimostrazione: operetta lacrimevole che ha agevolato la colossale rimozione storica del ruolo reale svolto dal segretario del Pci. La cui grandezza, spesso, andò di pari passo con la sua solitudine.

Quando c’è una figura da depotenziare per rendere più debole – o incomprensibile – il suo messaggio riversandone l’eredità in una grande melassa di buoni sentimenti, basta farla piacere a tutti. Per cui Berlinguer – come già accadde ad Antonio Gramsci (e non a Palmiro Togliatti sul quale pesa una leggenda nera) – è stato trasformato da anni in un’icona, sorta di immaginetta sterilizzata. Operazione resa possibile dal solito cliché liberale che di Berlinguer ha estratto solo uno dei suoi aspetti – molto importante ma non il più importante – cioè quello della questione morale.

Per cui è accaduto che il Berlinguer onesto abbia prevalso sul Berlinguer comunista. Una specie di don Bosco di sinistra. L’uomo del nuovo socialismo, dell’autonomia del Pci, della democrazia come valore universale, delle battaglie per i diritti dei lavoratori e delle donne, è stato sovrastato dal Berlinguer austero e onesto. Caratteristica che per un comunista è come respirare l’aria che lo circonda (almeno per quelli dell’epoca).

Un’operazione politico-giornalistica che ha consentito di mettere in ombra gli aspetti più innovativi e importanti del pensiero e dell’azione di Berlinguer. Che, prima di tutto, fu un comunista. Un comunista italiano, legato indissolubilmente alla storia lunga – non priva di errori e ritardi – del Pci. Ispirato da uno stile di rigore e concretezza che lo ha portato a compiere scelte difficili che hanno segnato per sempre la storia della sinistra italiana ed europea. Le ricordo per punti: la proposta del compromesso storico dopo la tragedia cilena; il distacco dall’esperienza del cosiddetto socialismo reale di stampo sovietico; la breve stagione dell’eurocomunismo e la ricerca di una Terza Via; la lotta senza quartiere alla violenza e al terrorismo mettendo la centro la difesa delle istituzioni repubblicane; l’attenzione ai diritti; i pensieri lunghi sulle questioni internazionali a partire dalla pace, la coesistenza pacifica e il diniego delle guerre; la scelta dell’alternativa democratica alla Dc e lo scontro furioso col craxismo; la battaglia definitiva in difesa dei diritti del lavoro avvelenati dal decreto di San Valentino.

Sono solo titoli, punti. Ma che hanno segnato l’arco della sua segreteria – cominciata nel 1972 quando fu eletto in sostituzione di Luigi Longo – e riscritto nel profondo l’agenda politica italiana. Il consenso al Pci – un terzo degli elettori scelse i comunisti per oltre un decennio – confermò che le politiche di avanzamento democratico erano quelle giuste. Non c’è legge importante che non porti in quegli anni il sostegno e il contributo decisivo del Pci. Un partito che voleva governare ma disposto anche a ingaggiare scontri durissimi quando la disponibilità e il senso di responsabilità furono scambiati per cedimento: il Pci nel 1979 in piena emergenza terrorismo tolse, ad esempio, l’appoggio al governo Andreotti per l’adesione dell’Italia al Serpente monetario europeo e per lo svuotamento della legge sui patti agrari (oltre che sull’ambiguità mostrata dagli “alleati” Dc e Psi sul caso Moro e su altri misteri).

E’ bene allora, e anche onesto, ricordare il Berlinguer comunista e l’uomo della sinistra italiana. Capace di scelte radicali. Come quando appoggiò la dura lotta dei lavoratori della Fiat, dicendosi disponibile a farlo anche se avessero deciso di occupare gli stabilimenti. O quando, nella riunione della direzione nazionale del 5 giugno 1984 – due giorni prima del dramma sul palco padovano di piazza delle Erbe – sostenne la necessità di continuare la battaglia contro il decreto sulla scala mobile con il ricorso al referendum abrogativo. “Propose che se ne desse l’annuncio in un intervento al Senato al momento della conclusione del dibattito” ricordò Renato Zangheri.

Nella lotta al terrorismo Berlinguer dimostrò il suo ruolo di statista. Il Pci si schierò senza tentennamenti – a differenza di altri – con tutta la sua forza organizzata e capillare contro il partito armato e la composita galassia dei fiancheggiatori. Fu capace di scelte difficili come durante i 55 giorni del sequestro Moro, dimostrandosi caposaldo della cosiddetta “fermezza”. “Berlinguer – raccontò Ugo Peccholi in quegli anni il suo collaboratore principale – fu convinto fin dal primo momento, come tutti noi, che qualunque cedimento non avrebbe salvato Moro. Non ebbe mai dubbi che quel rapimento era fatto per colpire un’operazione politica, la solidarietà nazionale. Un’operazione, quindi, per impedire che la democrazia italiana si sbloccasse e andasse avanti. E per questo Moro era un obiettivo da distruggere… la trattativa avrebbe perciò solo aperto dei varchi terribili alla legittimazione della violenza terrorista come strumento di lotta politica”.

Due aspetti ancora sono da tenere presenti come centrali nell’analisi della figura di Berlinguer. Quella che lo storico Barbagallo ha chiamato “l’impossibile alternativa e l’impraticabile diversità” e, infine, il suo distacco, umano, politico e culturale dalle esperienze del socialismo reale. Per il primo aspetto – a partire dalla richiesta di un’alternativa secca alla Dc nel 1980 – c’è da ricordare come il Paese in quegli anni stesse affondando tra scandali, corruzioni, questione morale. L’alternativa era una vera svolta, ma i socialisti rifiutarono scegliendo la Dc. Furono anni di duri scontri anche nel gruppo dirigente nazionale. Barbagallo riporta i toni e le parole di un contrasto drammatico tra Berlinguer e Pajetta nel 1982. Con il secondo che accusava il segretario di gestione monocratica. “Non si può rispondere, o vi va bene così o cercatevi un altro… segretario” diceva l’ex ragazzo rosso. “Tu hai posto la sfiducia – lo interrompeva Berlinguer – e io pongo la questione della fiducia. Tu mi hai dipinto, Pajetta, come un compagno che non vuole fare l’autocritica e non vuole discutere dei metodi di lavoro degli organismi dirigenti”.

Lo strappo con Mosca fu il risultato di una lunga elaborazione dell’intero Pci avviata da Togliatti, proseguita con Longo e portata a compimento da Berlinguer. Una linea non esente da timidezze e incertezze ma che portò il Pci lontano dal vecchio campo garantendo autonomia e indipendenza al partito. “Un’autonomia e un’indipendenza che nel suo pensiero – ha scritto Adriano Guerra – non richiedevano per essere assunti né quella rottura totale con l’Urss da più parti evocata né una rottura con le radici storiche del partito”. Berlinguer infatti rivendicò – lo fece anche nel 1981 – come il Pci fosse comunque il figlio della rivoluzione russa del 1917, aggiungendo “un figlio ormai adulto e autonomo”.

La solitudine di Berlinguer, i suoi pensieri lunghi e per alcuni versi profetici, la ricerca inesausta, non lo portarono però mai a recidere legami e radici. In pratica il Pci non diventò con lui quel partito socialdemocratico propugnato da Giorgio Napolitano che con il segretario ingaggiò sempre dure polemiche. Perché Berlinguer non intese mai stravolgere l’identità comunista “sino a farla fuoriuscire da se stessa” (Gravagnuolo).

La migliore conclusione di queste righe sono le sue parole pronunciate nel 1977 a Mosca, dove quel piccolo sardo era già un gigante: “L’esperienza compiuta ci ha portato alla conclusione… che la democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista”.

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