di Vindice Lecis
Ammetto la diffidenza per una certa esagerata baldanza esibita nelle fascette che avvolgono un libro. Definito immancabilmente un capolavoro che la letteratura aspettava da decenni. Sono però rimasto stupito per l’iperbolica definizione letta nella quarta di copertina di un romanzo: “Se Charles Dickens e Bram Stoker si fossero riuniti per scrivere il grande romanzo vittoriano mi chiedo se avrebbero superato Il serpente dell’Essex. Sarah Perry si afferma come una delle migliori scrittrici inglesi di oggi”. Insopportabile improntitudine o solo entusiastico giudizio di John Burside? Poi di seguito i bollini encomiastici del Sunday Times e del Sunday Telegraph.
Ho dunque acquistato Il serpente dell’Essex (Neri Pozza, traduzione di Chiara Brovelli) dell’autrice britannica Sarah Perry. Che, in estrema sintesi, è un libro di superstizione e religione, ambientato alla fine dell’Ottocento in un’età vittoriana descritta minuziosamente e in modo sorprendente. Un romanzo storico dove i protagonisti, Cora e William, guardano la realtà dell’epoca con occhi del tutto differenti. Ma sono attratti dalla loro diversità. Lei, da poco vedova e felice di esserlo, appassionata di fossili e desiderosa di iscrivere il suo nome accanto a qualche scoperta. Lui, un giovane e severo vicario, conservatore, in difficoltà a coniugare religione e i tempi che vive, così impregnati di scienza, ragione e nuovi diritti che s’avanzano.
Nel villaggio di Aldwinter la paura di un serpente marino, forse un drago, di cui si parla da tempo come solida leggenda, diventa il denso collante di un terrore atavico che trasforma in isteria la vita degli abitanti. Cora e William, hanno idee diverse sull’argomento: la voglia di avere conferme folgoranti dalla scienza per lei; dimostrare l’empietà delle superstizioni per lui. Eppure l’attrazione tra i due è evidente, continua. In un’intervista a Il libraio, l’autrice ha spiegato di avere interesse per “la religione e la superstizione come concetti, mi interessa poter delineare dove finisce l’una e dove comincia l’altra e, soprattutto, mi interessa la scienza, e capire come può la religione coesistere con il progresso scientifico o come, invece, rischi di sopprimerlo”.
Il romanzo si snoda attraverso scorrevoli pagine magistrali (l’intervento al cuore su un uomo accoltellato, tra le migliori) e altre più complesse e, forse, apparentemente più lente, tutte però concentrate sulla forza dei personaggi e la descrizione minuziosa di un’epoca. Pagine sempre capaci di sorprendere e attrarre come, appunto, accade nella grande narrativa (che differenza con autori men che mediocri prigionieri dei mezzucci e artifizi di una slang-scrittura, impalcatura fragile di trame tenui e incomprensibili). Qui, invece, la storia è potente e arricchita da personaggi importanti dove tutti hanno un ruolo. Non solo Cora e William, dunque. Ma Martha, l’amica di lei, appassionata delle condizioni di vita della classe operaia e del primo socialismo. Oppure il figlio problematico di Cora, o Stella la sofferente moglie del vicario, o l’ambizioso chirurgo Luke Garrett. E il serpente? Temuto e collegato a strani fenomeni naturali, lo si aspetta, si dice di averlo avvistato, lo si accusa di assassini. Ma altro non è che il riflesso delle nostre ataviche paure.
“Gira, continua a girare il mondo inclinato sul suo asse, e il cacciatore stellato percorre il cielo dell’Essex con il suo vecchio cane alle calcagna. L’autunno respinge l’inverno, che diligente si presenta a reclamare il suo posto” rappresenta il mondo immutabile alle prese con tempi nuovi. Ben rappresentati da Cora Seaborne che in una lettera a Will, gli scrive descrivendo la sua giornata di donna del tempo: “Mangio un uovo per cena, e bevo birra Guinnes, mentre leggo Bronte e Hardy, Dante e Keats, Henry James e Conan Doyle… poi ai margini disegno il serpente dell’Essex, e gli metto un paio di ali robuste per volare via”.
Sarah Perry, Il serpente dell’Essex (Neri Pozza, pagine 464, 18 euro)
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