di Vindice Lecis
Alle Europee del giugno 1989 il Pci ottenne un risultato notevolissimo: il 27,6%. Era, dunque, ancora un partito vitale pur scosso da forti tensioni interne e attraversato da orientamenti strategici divergenti, acuiti dalla mancanza di una guida come era stata quella di Enrico Berlinguer. Dalla sua morte, i successivi cinque anni furono segnati dalla sconfitta nel referendum sulla Scala mobile – atto postumo della grande battaglia democratica portata avanti dal Pci – dalla elezione e dal defenestramento di Alessandro Natta (1988) e dall’ascesa di Achille Occhetto alla guida del Partito.
Nuovi leader premevano (D’Alema, Veltroni, Fassino, Bassolino etc) e temi diversi si affastellavano in un partito che assisteva con trepida attenzione alla dissoluzione dei regimi dell’Europa dell’Est. Il Pci tra i partiti comunisti del pianeta era certamente quello maggiormente attrezzato ad affrontare quella svolta epocale. Tutta la sua storia, in particolare quella del dopoguerra, era caratterizzata dalla ricerca di una via autonoma e nazionale verso il socialismo e il Pci era il cardine – pur dall’opposizione – del sistema democratico e dell’ordinamento repubblicano. Esponenti della destra interna, come il “migliorista” Giorgio Napolitano – assai ostili alle ultime scelte di Berlinguer – premevano invece perché il Pci si legasse maggiormente, sino a chiederne di farne parte, al Partito socialista europeo (nonostante l’opposizione di Craxi).
Il Pci contava allora 1 milione e 400 mila iscritti e ancora migliaia di sezioni. Amministrava grandi e piccoli comuni, province e regioni. La discussione interna, spinta anche dalle accelerazoni impresse da Gorbaciov nell’Urss, prese subito la strada del “cambiamento”: della natura stessa del partito, della sua collocazione internazionale, dello stesso nome.
Si cominciò con lunghi e penosi dibattiti sul centralismo democratico, sull’attualità o meno dell’aggettivo “comunista”, sull’ancoraggio al socialismo europeo. Berlinguer e la sua eredità cominciavano a essere ingombranti per i nuovi dirigenti. Occhetto e il suo gruppo puntarono su tematiche importanti ma slegate dalla tradizionale iniziativa del Pci: l’abbandono del conflitto tra capitale e lavoro, minor attenzione ai diritti sociali, parossistica attrazione alla sponda liberal.
Il 9 novembre 1989 con la “caduta” del Muro di Berlino, il Pci si trovò davanti a un bivio drammatico e scelse la strada più bizzarra: il cambio di nome. Argomento in verità non nuovo nella storia del partito e già affrontato nei precedenti decenni (Partito del Lavoro era uno dei nomi più gettonati). Ma quella volta significava qualcosa di più e di diverso. Il confronto assunse ben presto toni concitati e drammatici in un partito la cui segreteria nazionale era composta ormai solo da “giovani”:Achille Occhetto, Antonio Bassolino, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Fabio Mussi, Claudio Petruccioli, Livia Turco, Walter Veltroni.
Arriviamo al 12 novembre 1989. Nell’ambito delle celebrazioni della grande battaglia partigiana di Porta Lame a Bologna, Achille Occhetto annunciò ai “veterani” delle novità. E i pochi cronisti presenti nella sezione della Bolognina, compresero che si trattava dell’abbandono della falce e il martello e del cambio del nome del partito. Una svolta solitaria che cadeva come un macigno sulla massa di iscritti ed elettori.
L’obiettivo di Occhetto e dei suoi sostenitori – quelli in buona fede – sarebbe stato quello di portare tutta la storia e la tradizione del Pci dentro una nuova formazione dove potessero convivere e fondersi altre storie politiche di sinistra e progressiste. Era una pura illusione, se non una grande mistificazione. Ben presto questo impegno strategico si trasformò in una resa senza condizioni. L’egemonia della sinistra del lavoro cedette ben presto il passo a confuse e pasticciate tendenze liberal, ben viste dalla stampa padronale, a temi estranei alla tradizione comunista. Si mise da parte l’idea della trasformazione per lasciare il posto a un riformismo senza riforme.
Al comitato centrale del 20 novembre si dette il via libera alla nuova formazione. Prima i programmi poi la Cosa, disse Occhetto. Ma in realtà la Cosa era già ben delineata. Al XX congresso del febbraio 1991 il Pci si scioglieva e si trasformava in Pds. Cominciava un rapido smottamento di temi e di programmi. Nella inesausta coazione a ripetere errori, il Pds si trasformerà successivamente nei Democratici di sinistra, un partito scialuppa con pochi contenuti, messa in mare per tentare di andare oltre. Dentro la follia del maggioritario intanto l’aggettivo sinistra si riduceva al lumicino sino ad essere accoppiato, per una curiosa brutalità semantica, al centro. Una storia di sconfitte che durano da venticinque anni. Sino a Renzi.
ps: chi scrive, come è noto, è stato iscritto al Pci per vent’anni (1971-1991). Poi ha aderito – pur senza militanza attiva – al Pds e, financo, ai Ds. Mai però al Pd che non è mai stato di sinistra. Considero – alla luce della storia di questi 28 anni- la “svolta della Bolognina” (per la debolezza dei suoi fondamenti teorici e politici) e il conseguente scioglimento del Pci uno dei più gravi errori compiuti nella storia repubblicana. Oltre che un gigantesco e doloroso imbroglio di cui paghiamo ogni giorno le conseguenze.
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