di Vindice Lecis
Palmiro Togliatti è stato uno dei fondatori e, successivamente, il capo del più importante partito comunista dell’Occidente e tra i principali padri costituenti dell’Italia repubblicana. A lui dobbiamo l’intuizione della costruzione di una democrazia di tipo nuovo, ancorando i destini del suo partito all’orizzonte della funzione nazionale della classe operaia candidata ad essere classe dirigente “che si fa carico della sorte e dei valori positivi della nazione” (Alessandro Natta).
E’ vero e confortante che, oggi, la figura di Palmiro Togliatti stia tornando al centro dell’attenzione degli storici. A patto che ci si liberi dall’artiglio perverso della damnatio memoriae imposta dai ceti conservatori e da una certa cultura estremistica e liberaldemocratica in oltre mezzo secolo.
Fondamentale è, dunque, la ricerca sull’atteggiamento seguito da Togliatti riguardo alla costruzione in Italia di una democrazia di tipo nuovo. Ricerca non astratta ma costruita nel fuoco di lotte e sommovimenti profondi all’interno di epoche storiche differenti e drammatiche (lotta di liberazione e Costituente, Guerra Fredda e repressione interna all’Italia, rapporto col socialismo reale e via italiana al socialismo) e che, tuttavia, fanno emergere Togliatti per originalità.
In un’intervista all’Unità dell’ottobre 1984, l’allora segretario comunista Alessandro Natta soffermandosi su Togliatti e la Costituente rilevava come egli non si muovesse “come un liberal democratico classico, semplicemente preoccupato di un ripristino di guarentigie statutarie. La sua visione della democrazia andava al di la di quella visione “pura” per cui la democrazia si riduce alla democrazia politica e alle garanzie e agli equilibri procedurali. Nella Costituzione si riverbera il suo pensiero che è quello di un ordinamento politico che consente l’esplicarsi dell’azione per una trasformazione sociale dello Stato, per una democrazia sostanziale che penetra e configura le strutture economiche, i rapporti sociali, l’area delle libertà reali”.
Da qui partiamo per parlare di “Togliatti e la democrazia italiana”, volume edito da Editori Riuniti nel 2017 che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Roma nel 2014 organizzato dalla Casa delle culture e dall’Associazione culturale Il Migliore. Gli interventi raccolti nel volume – curato da Alex Hobel – nulla omettono sul percorso politico del leader comunista evitando così di farne una figurina depotenziata nella sua forza, tuttavia respingendo l’immagine falsa costruita in decenni di anticomunismo militante e ossessivo. Nella premessa del volume non a caso il curatore osserva, citando uno scritto di Luciano Canfora di vent’anni fa, che la riflessione su Togliatti “era oggetto di un quotidiano martellamento polemico condotto in spregio ad ogni verosimiglianza o documentazione”.
Una periodizzazione schematica non sarebbe certo utile. Tuttavia, le varie fasi delle scelte di Togliatti consentono di osservare il vistoso e robusto filo che accompagna le sue analisi e la conseguente azione politica: la svolta di Salerno e la partecipazione dei comunisti ai primi governi; la Costituzione repubblicana; la resistenza alla repressione durante la guerra fredda senza diventare una ridotta assediata dalla quale non si potesse uscire vincitori; la via italiana al socialismo; il memoriale di Yalta; l’attenzione critica al primo centro sinistra.
Rileggendo i discorsi di Togliatti e legandoli all’azione politica del Pci da lui diretto, si osserva una forza in movimento, non dogmatica, legata alla realtà e alla storia italiana, capace di indicare obbiettivi avanzati senza mai perdersi in un vacuo estremismo parolaio. Dalla sua analisi sul fascismo negli Anni Trenta – il regime reazionario di massa – fino all’ardita riflessione sull’inserimento delle masse nella struttura di uno stato capitalistico, ritroviamo i capisaldi di ciò che è stato il comunismo italiano, fino alla segreteria di Enrico Berlinguer che portò naturalmente il Pci su posizioni ancora più nette, direi fortemente togliattiane, facilitate in questo da una storia che veniva da lontano.
Oggi anche la lettura più rispettosa della verità non si è liberata da alcune caricaturali impostazioni sul carattere di Togliatti. Ad esempio il suo leggendario realismo, nutrito di cinismo e pragmatismo – annotazioni solo in parte vere – non può essere disgiunte dal fatto che il segretario comunista fosse un autentico capo del movimento comunista italiano ed internazionale e non un, pur rispettabile, riformista socialdemocratico (così come quando si sceglie il Berlinguer che più aggrada alla bisogna: quello della questione morale, ma non quello della lotta agli euromissili, del la critica al craxismo corruttore, della difesa della scala mobile etc).
Certamente Togliatti parla all’oggi. Anzitutto a chi presume di fare politica a sinistra. Ad esempio nel rifiuto deciso degli slogan, della mancanza di analisi, dell’estremismo, della mancanza dell’orizzonte nazionale. Nel 1946, ad esempio, spiegava come anche nell’Uomo qualunque (il movimento di Giannini) pur legato nel Sud alle forze reazionarie e del latifondo ci fossero elementi di riflessione nell’analisi dei suoi elettori. O quando descrisse in un lungo saggio diviso in sei puntate su Rinascita (tra il 1955 e il 1956) la figura di Alcide De Gasperi, lamentando che la stesa Dc non ne avesse colto l’occasione per riflessioni originali.
Guido Liguori che analizza la questione dell’eredità gramsciana, vede nel periodo compreso tra il 1947-1948 e il 1953 “una sospensione della politica di Salerno”. La guerra fredda e la conseguente rottura dell’unità antifascista, la sconfitta del Fronte popolare, l’attentato del 1948, la feroce repressione anticomunista portarono a un pericolo reale di ritorno indietro. “Tutta la strategia togliattiana era fondata sull’ipotesi di lungo periodo di collaborazione tra i partiti democratici. L’analisi del fascismo come fase epocale, il suo stesso pessimismo facevano temere a Togliatti la possibilità di un ritorno a forme non democratiche di egemonia borghese” scrive Liguori. Eppure, aggiunge, “l’originalità del Pci in quegli anni di dura guerra fredda non venne meno”.
Fu grazie alle scelte di Togliatti – politiche ed editoriali – se il pensiero di Gramsci soffiò sull’Italia democratica. Luciano Gruppi nel 1974 scrisse che la pubblicazione dei Quaderni inflisse “un colpo decisivo ad ogni mortificazione meccanicistica del marxismo”. Questo ha consentito al Pci di diventare elemento decisivo della democrazia italiana – fattore incontrovertibile – e di poter continuare anche in frangenti dolorosi (1956) a restare il partito della Repubblica, della democrazia progressisva, della rivoluzione in Occidente.
Nel volume che stiamo analizzando, vi sono numerosi contributi tematici. Quello di Andrea Ricciardi, ad esempio, prende in esame il “controverso” rapporto con la cultura azionista a partire dalla accettazione obtorto collo della svolta di Salerno da parte dei dirigenti del Pd’A. In effetti quello fu un rapporto perennemente conflittuale: Togliatti nel 1951 rendendo loro l’onore delle armi ritenne che al Pd’A fosse mancata “paziente tenacia e tranquilla costanza” per diventare il partito delle masse lavoratrici. Sottinteso che quel partito fosse invece il suo Pci.
Nicola Tranfaglia analizza il contributo di Togliatti tra ricostruzione e riforme ricordando che il Pci, pur criticando severamente l’esperienza del primo centrosinistra, parlò di “opposizione diversa”. E tale fu il tratto dei comunisti anche nei decenni successivi. Era già accaduto con l’attenzione forte nel 1949 al piano del lavoro della Cgil di Giuseppe di Vittorio. Scrive Maria Paola Del Rossi che quell’intuizione della Confederazuione “andava nella direzione indicata da Togliatti nel 1948 di avviare un’importante battaglia politica, non solo sindacale, che si sarebbe dovuta basare su un programma di riforme strutturali per limitare il potere padronale in fabbrica in linea con il nuovo corso economico avviato dal Pci nel comitato centrale del settembre 1946”.
Gli “appunti per una ricerca” sulla via italiana al socialismo sono elencati da Renzo Martinelli. Quando nel 1964 muore Togliatti a Jalta, in Italia risorge un nuovo governo di centrosinistra organico guidato da Moro col Psi di Nenni. Per Martinelli quella è l’ultima battaglia di Togliatti conclusa “con una evidente sconfitta” perché il segretario comunista rivendicava la partecipazione organica dei comunisti al governo. Il “significato periodizzante” della morte di Togliatti costituirebbe infatti “la conclusione di un’intera fase storica nella vicenda del partito nuovo” se non addirittura “una sorte di precoce fine del Pci”. Tesi che Martinelli spiega successivamente addebitando la “sconfitta” (cioè la non partecipazione del Pci al governo) a limiti di strategia mettendo però in ombra i potenti condizionamenti internazionali anticomunisti, che drammaticamente riemersero tre lustri dopo con il terrorismo, strumento contro l’avanzata del movimento dei lavoratori e dell’attacco alla partecipazione dei comunisti al governo.
Giovanni Gozzini analizza il primato della politica estera nella concezione di Togliatti e quella cultura storicista “che concepisce i partiti come strumenti di intersezione delle masse popolari dentro lo Stato”. Il Pci, assediato anche militarmente nella guerra fredda, si vide costretto a una stretta organizzativa senza perdere, anzi accentuando, le caratteristiche di massa. Lo stesso Togliatti capì che senza di lui il Pci avrebbe rischiato di deragliare e disse no all’invito di Stalin – avallato da un voto quasi unanime della direzione del partito – che lo voleva nel 1951 a capo del Cominform. Tuttavia Gozzini mette in evidenza, nel rapporto con L’Urss “la rinuncia a una critica strutturale”, mantenendo invece una sorta di “vincolo esterno” che coinvolge i militanti.
Di notevole interesse il saggio di Alexander Hobel sulla traiettoria del Pci, di Togliatti e del movimento comunista internazionale a partire dal 1956 sino al memoriale di Yalta. Otto anni densi che confermarono il dinamismo internazionale dei comunisti italiani alle prese con il XX congresso del Pcus, con la demolizione di Stalin e dello stalinismo, con la critica al “progressivo sovrapporsi di un potere personale alle istanze collettive” (intervista a Nuovi Argomenti). Hobel ricorda il continuo richiamo all’analisi della realtà, a partire dal contesto internazionale necessarie “per affrontare e risolvere in modo nuovo le questioni dell’avvicinamento tra diversi settori del movimento operaio”. Posizioni che i sovietici accolsero con irritazione al punto che Krusciov criticò l’intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti “soprattutto per l’uso del termine degenerazione”. Il legame di ferro non modificò, anzi esaltò, l’autonomia del Pci dal Pcus a differenza di altri partiti comunisti, come il Pcf.
Il mondo bipolare cambia agli inizi degli Anni Sessanta. Con lo sviluppo della decolonizzazione, la crescita del campo socialista e dei movimenti di liberazione, la fallita invasione della Baia dei Porci, la nascita del Muro a Berlino, i contrasti con la Cina e l’unità nella diversità. Il libro si conclude con la riproposizione di un saggio di Salvatore D’Albergo del 1973, pubblicato come prefazione ai Discorsi della Costituente di Togliatti.
Alex Hobel (a cura di) Togliatti e la democrazia italiana (Editori Riuniti, 2017, pagine 332, 18 euro)
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