di Vindice Lecis
“Il 14 giugno 1323, sul mezzogiorno, le galee dell’infante Alfonso d’Aragona entrano nel porto di Palma di Sulcis, ove al tramonto sono raggiunte dal resto della flotta. Il giorno successivo Alfonso prende terra e sbarca l’esercito, con tutto il suo equipaggiamento”. Comincia così, con questa immagine di guerra, il saggio di Gian Giacomo Ortu, La Sardegna tra Arborea e l’Aragona (Il Maestrale, 2017, 503 pagine, 23 euro), quarto volume della collana La Sardegna e la sua storia che annovera anche lavori di Attilio Mastino (Storia della Sardegna antica, 2005), di Francesco Manconi (La Sardegna al tempo degli Asburgo. Secoli XVI-XVII, 2010) e dello stesso Ortu (La Sardegna dei giudici, 2005).
L’idea centrale di questo saggio scorrevole e appassionante, è il non voler considerare il XIV secolo come un’epoca tutta aragonese-catalana. La spedizione organizzata, pur con fatica, dal re Giacomo II per prendere possesso della Sardegna si scontrerà ben presto, infatti, con una realtà assai particolare, ricca di connotati specifici rispetto alle aree, ad esempio, del continente italiano o delle terre della penisola iberica.
Una specificità resa possibile dalla presenza, anzitutto, del Giudicato di Arborea, i cui confini pur dopo varie vicissitudini combaceranno spesso con quelli dell’intera isola, a parte le eccezioni di Cagliari e Alghero. Accanto a questo regno – che ebbe sovrani come Ugone II, Ugone III, Mariano II, Mariano IV, la regina Eleonora e altri eminenti e discussi personaggi come Brancaleone Doria e il visconte di Narbona – operavano da secoli altre entità,come le signorie dei Doria, dei Malaspina, dei Donoratico, le grandi potenze marittime di Pisa e di Genova, oltre al libero – benché pazionato – comune di Sassari.
Dopo l’investitura di Bonifacio VIII nel 1297, per Giacomo II era diventato necessario e vitale – abbandonata la Sicilia, costruire quel Regno di Sardinia e Corsica voluto dalla “grazia divina” e dalla chiesa romana. Dopo un estenuante periodo di trattative con i regni della Corona a caccia di finanziamenti, riuscì ad allestire un corpo di spedizione che mai, prima d’ora, l’Aragona e i suoi alleati avevano organizzato. L’armata aragonese imbarcata su 53 galee, 20 cocche e altre imbarcazione di diversa stazza per un totale di 300 legni, contava circa diecimila armati, tra cavalieri, ric homens, balestrieri (2000), fanti e cavalieri mercenari detti almogàveri (3000), fanti di servizio ai cavalieri (4000) ai quali occorrerebbe aggiungere gli equipaggi.
Le cronache ci raccontano che, su consiglio dell’alleato Ugone II, re d’Arborea (che sottoscrive la sottomissione feudale ma restò autonomo, usando ogni metodo, come i suoi successori), il corpo di spedizione aragonese assediò e conquistò, prima Villa di Chiesa (Iglesias), poi sbaragliò l’esercito pisano a Lutocisterna nei pressi di Cagliari. Infine assediò il Castello di Cagliari, costruendo anche il borgo fortificato di Bonaria.
Ma il secolo aragonese non era destinato ad essere tale perché dovette fare i conti con l’Arborea. Prima alleato – furbo, riottoso, sfuggente, capace di fulminanti ripensamenti – poi avversario difficile da domare. La cronologia, anno dopo anno, ci illustra bene questa situazione.
Oltre alla “grazia divina” sono proprio gli arborensi a sollecitare l’intervento e il soccorso militare della corona contro il dominio pisano in Sardegna. I sardi fecero a gara, in questa prima fase, a prestare l’omaggio e il giuramento di fedeltà all’infante Alfonso: dal giudice d’Arborea, ai Doria, ai rappresentanti della città di Sassari con l’inquieto Guantino Catoni (altro straordinario personaggio), sino ad Azzone Malaspina e a Guelfo Donoratico.
Il Castello di Cagliari, che cadde definitivamente nel 1326 venne svuotato dalla popolazione pisana e ripopolato con elementi catalani. Così accadde a Sassari che però si ribellò più volte (un governatore catalano, Gaetano Sanmenat venne trucidato) e il ripopolamento fallì così che la città potè conservare i suoi Statuti.
Scorrono le vicende belliche, le tele di ragno della diplomazia e quelle dinastiche. La Sardegna appare ben innervata nella grande storia di quell’epoca. Che è quella di Giotto e di Petrarca, di Marsilio da Padova e Cola di Rienzo. Dell’impero e dei Comuni, dello scisma papale d’Avignone e della reconquista spagnola. Ma il libro si sofferma in modo approfondito – e questo lo rende assai prezioso – nell’analisi delle trasformazioni sociali ed economiche e del diritto. I sovrani d’Arborea – giganteggiano Mariano IV e anche la figlia Eleonora – della piccola corte d’Oristano non sono certo di minor spessore dei vari Alfonso IV o Pietro IV.
I colpi di scena militari e diplomatici si susseguono per decenni. Così come le congiure (ad esempio quella del maggiordomo del giudicato d’Arborea Francesco Squinto nel 1386), gli episodi efferati, le alleanze che durano lo spazio di un mattino, le battaglie navali (nel 1353 la disfatta della flotta genovese a Porto Conto per mano di Bernardo di Cabrera) e quelle di terra (come la battaglia di Aidu de turdu, vicino a Torralba dove perde la vita il governatore aragonese Guglielmo de Cervellòn ad opera dei Doria, o la battaglia di Sanluri). Sino all’epilogo del ribelle Leonardo Alagon.
Ortu non si sottrae al confronto, in sede di analisi sulle questioni d’identità, al sedimento di fondo della realtà dei fatti. La possibilità che, ad esempio, il giudicato d’Arborea – e specularmente il principato di Barcellona ad opera dei catalani – si possono essere trasformati “da realtà storiche effettive in costruzioni di memoria, tali da sfuggire largamente alla verifica documentaria (come nel caso più emblematico della figura di Eleonora d’Arborea)”. Determinando “elementi di disturbo” inseriti nella ricerca storica dal “sardismo della seconda metà del Novecento (e oltre) al catalanismo della seconda metà dell’Ottocento (e oltre), senza tuttavia misconoscere la spinta di maggor interesse a questa stessa ricerca che da entrambi è venuta”. (corsivi miei).
Tuttavia, questa lunga vicenda sarda non appare il riflesso lontano della grande storia europea ma ebbe una sua parte specifica e importante. Come conferma la Carta de logu e le sue pagine sull’emancipazione delle campagne dalla servitù, sulla nascita di istituzioni rappresentative e anche sulla produzione giuridica.
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