di Vindice Lecis
Pur se parliamo di un’indagine senza respiro per il reato di distruzione dolosa di bene architettonico di straordinario valore, tuttavia il colpevole può essere svelato senza paura di guastare la lettura del godibilissimo libro che Cosimo Filigheddu e Sandro Roggio, hanno appena dato alle stampe a proposito della devastante soppressione – una delle tante, troppe, di castelli, chiese, porte, mura, edifici, accadute nei secoli – della chiesa di Santa Caterina a Sassari.
Di quale colpevole parliamo? Dato che questo scempio, come chiamarlo diversamente, è stato perpetrato in un’epoca di mito della modernità galoppante (il XIX secolo) – in questo caso di scontro di interessi tra le idee e le pratiche risorgimentali e quelle temportali e spirituali della Chiesa – allora faccio mio, convintamente, ciò che i due autori scrivono a pagina 73 del loro libro (Buttate giù quella chiesa. Santa Caterina, la vera storia della demolizione, Edes 2018, 116 pagine, 12 euro). Quando cioè inseriscono l’atto dissennato (con molti padri e molte manine) nel “manifestarsi dell’impeto modernista di quegli anni in cui il concetto di degrado e quello di antichità spesso vengono mischiati e confusi anche dalle menti più illuminate”.
Parliamo dunque della chiesa di Santa Caterina che dominava, con la sua facciata e l’ imponente scalinata, il tratto di strada – l’attuale Corso Vittorio Emanuele l’antica Platha de Cothinas e poi via Grande – che, originandosi dalla Porta Sant’Antonio (Porta Sanctu Flasiu e, successivamente, PortaReale) si riversava nello slargo antistante il Castello Aragonese (allora ancora in piedi), trasformandosi quindi nella strada centrale sarda tra Sassari e Cagliari. Non era questa una chiesa di scarso peso tra quelle della città murata. Parrocchia dalla seconda metà del XIII secolo (1278), al pari della cattedreale dedicata a San Nicola e a quelle di San Sisto, San Donato e di Sant’Apolllinare, era una chiesa di enorme importanza nella città di Sassari con quasi cinquemila parrocchiani. Al punto da rivaleggiare con la stessa vicina Cattedrale.
I nostri due inviati in quella temperie storica, si muovono con pignola costanza, analizzando atti e carte anche inedite ma utilizzando, anzitutto, il ragionamento – necessario se non ci si accontenta del prendere atto delle cose ma ci si incaponisce nel tentare di svelarne le ragioni, anche in presenza di vuoti documentali – cercando di definirne l’identikit di questa chiesa. Di cui restano vaghe descrizioni pittoriche. Ne tratteggiano bene le caratteristiche artistiche e architettoniche, elencandone i guasti e il degrado dell’epoca (alcuni di questi guasti certo presunti e volutamente amplificati), raccontando alcuni eventi storici che in quel luogo si sono svolti (a questi aggiungerei gli autodafè ai quali erano stati costretti i condannati e le condannate della Santa Inquisizione che si recavano nella chiesa con l’abito penitenziale giallo con le due croci rosse di Sant’Andrea e una mitra sul capo, dopo una breve e umiliante processione di fedeli e di sacerdoti salmodianti dal vicino carcere del Sant’Uffizio: come accadde, ad esempio, a Giulia Carta, la “strega di Siligo” il 26 ottobre 1597).
Filigheddu (giornalista e ora autore teatrale) e Roggio (architetto e urbanista, impegnato nelle battaglie contro gli scempi sulle coste) hanno fuso le loro rispettive competenze, mescolandole con la passione per la storia cittadina e un certo gusto per l’indagine e la ricerca di alcuni tratti tipici della città di Sassari. Arricchendo tutto con una serie di indizi che hanno estratto da letture di atti, documenti, lettere e giornali dell’epoca. Il risultato è notevole: il testo si legge agevolmente perché è appassionante e anche privo di quel fastidioso sapore – accademico ma non solo – che rende le vicende della storia sempre ostiche da comprendere.
Torniamo al tema. Perché è stata dunque demolita la chiesa di Santa Caterina? Qui la nebbia delle congetture si dirada. Sassari era infatti pienamente inserita nella dimensione politico e culturale dello stato sabaudo, agitata da fermenti ideali che la borghesia cittadina delle arti e dei mestieri mescolava con i propri interessi. Nel 1848 Torino capitale del Regno di Sardegna aveva intrapreso la battaglia contro la potente chiesa italiana e avviato la secolarizazione dei beni ecclesiastici. Aveva soppresso l’ordine dei gesuiti e incamerato i loro cospicui beni immobili. E nel 1850 con le leggi Siccardi aveva smantellato la manomorta abolendo i privilegi del clero. Nel 1855 – l’anno proprio della fatale demolizione della chiesa già decisa in precedenza dall’amministrazione civica – aveva proseguito sopprimendo tutti gli ordini religiosi privi di utilità sociale. Era stato un grande e clamoroso sfratto da case professe e conventi di migliaia di religiosi e religiose non impegnate nel lavoro di evangelizzazione. E Pio IX non l’aveva presa bene.
Sassari era nel pieno del fermento risorgimentale, anti austriaco e anche anticlericale. Idee moderne tuttavia sempre collegate agli interessi concreti delle nuove classi borghesi protagoniste di quell’epoca e alle necessità della città di mostrarsi moderna. Come? Regolando i conti col passato. Letteralmente, demolendolo. Con la scusa del degrado (un tetto sconnesso?) e dell’ingombrante e maestosa scalinata che trasformava l’attuale piazza Azuni in una strettoia gli entusiasti picconatori eliminarono dalla città prima la chiesa di Santa Caterina, poi con motivazioni assurdamente ideologiche fecero a pezzi il Castello aragonese trecentesco e, infine, ebbero godimento nel demolire anche il palazzo del governo, attiguo e collegato alla chiesa di Santa Caterina.
Un momento ancora di attenzione. L’inchiesta dei nostri due autori prosegue in quella Sassari povera ma anche aperta agli influssi europei e italiani, massacrata dal colera che aveva ucciso un terzo degli abitanti e definitivamente spezzato il sogno di supremazia sempre vivo nei confronti di Cagliari (vicende che nascono già nel XVI secolo in una gara combattuta anche a colpi di ritrovamenti di scheletri di presunti santi) cercando di delineare le responsabilità del mandante del piccone demolitore. O dei mandanti. Ma in questo libro riesumano un reperto e scoperchiano un nuovo caso. Quali?
La scoperta, chiamiamola così, è il merito di aver tolto la polvere all’unico brandello rimasto in vita della chiesa: l’aver riportato all’attenzione – nell’attuale palazzo all’angolo tra piazza Azuni e largo Cavallotti – della cornice di una finestra medievale, di epoca “pisana”, che probabilmente era collocata nella parete di fondo dell’antica chiesa. Perché durante la demolizione – si chiedono gli autori -è stato deciso di salvarla? “Forse una tardiva e supertiziosa riparazione alla demolizione, che molti, in un inconfessato sentimento, avvertivano senz’altro come un sacrilegio”. E’ una delle ipotesi, assai suggestiva e interessante.
E il nuovo caso di cui parlavo prima? A fianco alla chiesa, sorgeva il palazzo del governo, chiamato reale o del governatore. Fu demolito – scrive Enrico Costa – intorno al 1870. Ma, quasi sicuramente, cadde qualche anno dopo. Un altro episodio di modernizzazione con implicazioni speculative? Non c’è dubbio. Ma su questo nuovo caso mi aspetto un nuovo libretto dei due autori che hanno ricostruito con sapienza, sul filo dell’ironia divertendosi e con una robusta documentazione, quell’epoca.
Cosimo Filighedu e Sandro Roggio, Buttate giù quella chiesa. Santa Caterina, la vera storia della demolizione (Edes 2018, 116 pagine, 12 euro).
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