di Vindice Lecis
Fino al 1652, l’anno della grande epidemia di peste, Sassari sopravvanzava Cagliari per numero di abitanti. Anche se il capoluogo del Capo meridionale (che comprendeva anche la Gallura) restava sede del vicerè e degli uffici del potere spagnolo, come la Real Audiencia, il consiglio del reale patrimonio, la cancelleria e del Maestro Razionale. Nel 1485, ad esempio, i fuochi fiscali di Cagliari erano stati 845 contro i 2500 di Sassari. Oltre un secolo dopo erano ancora rispettivamente 1967 e 2777; così come nel 1627, la distanza restava inalterata contando Cagliari 3168 e Sassari 4099 fuochi. Tre anni dopo la devastante pestilenza, gli abitanti di Sassari crollarono: il castigo de Dios arrivato da Alghero aveva falciato ben oltre un terzo della popolazione. La città, per usare una definizione di Francesco Manconi, fu annientata. Secondo una relazione inviata dai superstiti consiglieri sassaresi al re Filippo IV e al viceré, sarebbero morti 22mila abitanti in sole tre settimane.
Se la grande peste decise unilateralmente la questione del primato in Sardegna solo nella seconda metà del XVII secolo, nei periodi precedenti lo scontro tra le due città si era fatto duro e violento. A colpi di propaganda, espulsioni, corpi santi ritrovati a ogni piè sospinto. La chiesa in questa gara fu certamente in prima fila, ma i ceti magnatizi sassaresi e cagliaritani e i nobili non furono da meno.
Sassari, a differenza di Cagliari, veniva da una specifica storia di libero comune, prima con Pisa e successivamente con Genova. Una storia importante che i sassaresi volevano difendere. Sotto gli aragonesi e anche con gli spagnoli, erano riusciti a mantenere i propri Statuti benchè riequilibrati dalla presenza di organismi reali (il veguer, il vicario ad esempio). Il mantenimento di queste prerogative o privilegi e la presenza di una nutritissima nobiltà, spingeva il capoluogo del Capo di sopra (sede del Governatore) a rinfocolare continuamente la contesa con Cagliari. Che difendeva il suo potere con energia. Ad esempio Sassari chiedeva che il vicerè dimorasse per un certo periodo dell’anno in città (lo fecero i vicerè Dusai, Cardona, Madrigal, Coloma, Moncada e de Calatayud), contestualmnte ad alcuni organi del governo come la Reale Udienza. In pratica però,”non riuscì a ottenere neanche che i membri dello stamento nobiliare del suo Capo si potessero riunire senza la previa autorizzazione del vicerè” (Mattone).
Lo scontro si accese inoltre anche sul fronte culturale e su quello religioso. Entrambe le città nel 1543 chiesero al parlamento di diventare sede universitaria e la questione non ebbe un vincitore certo. Ma è nel campo ecclesiastico che le due città diedero il meglio di sè. Nel 1574 l’arcivescovo cagliaritano Francisco Perez si attribuì il titolo di “primate di Sardegna e Corsica”. Decisione respinta sdegnosamente dal suo collega turritano De Lorca che fece portare dallo storico Fara la questione davanti al papa e ai tribunali vaticani.
Cominciò dunque una gara per dimostrare che, solo una delle due archidiocesi, poteva fregiarsi della titolarità primaziale. Furono così assoldati storici, polemisti, giuristi e, persino, sterratori-archeologici. Tutti alla ricerca della prova definiva per mettere al tappeto il detestato avversario. Ad esempio, ha scritto ancora storico Mattone, se la diocesi di Cagliari “era stata fondata da Clemente discepolo di Pietro e futuro papa, Torres aveva ricevuto la visita di San Paolo durante il suo viaggio in Spagna”. Chiaro?
Inoltre bisognava disporre di un superiore numero di martiri. Chiese, necropoli e conventi furono sconvolte da scavi alla ricerca dei corpi santi da esibire però “deprimendo quelli del campo avverso”. Per cui il martire Proto da presbitero fu promosso vescovo e il cagliaritano Lucifero duramente contestato sia per quanto riguarda la santità che l’ortodossia. I cagliaritani facevano altrettanto con i martiti e santi della diocesi turritana.
I rapporti tra le città furono così avvelenati. Alcuni vicerè, tuttavia, come il discusso Conte del Real si appoggiarono a Sassari per tagliare le unghie alla riottosa nobiltà cagliaritana. Pur con fiere opposizioni da parte dei suoi ministri (tra l’altro tutti messi in stato d’accusa per corruzione, ma qusta è un’altra storia). Nel primo decennio del XVII secolo, ha scritto lo storico Francesco Manconi, “… vescovi, i capitoli e i consigli municipali del capo di Sassari, tutti orchestrati dal notabile Francisco Scano de Castelvì, premono su Madrid per riconoscere Sassari come sede della audiencia. Il trasferimento della massima magistratura del regno nel nord col pretesto d’amministrarvi giustizia e reprimervi i focolai di banditismo nei territori del distretto non è contestata soltanto dai cagliaritani ma anche dal regente la cancilleria Joseph de Mur e dai giudici Juan Masons e Gabriel Dalp”.
In quegli anni, in Sardegna e in Spagna, cresce la “storiografia militante” ed è in questo quadro che si impone la figura di Francisco Vico, “il sardo che più di tutti – ha scritto Manconi – matura la consapevolezza della valenza ideologica che può assumere il discorso storiografico”. Come “leader naturale della fazione politica sassarese… avverte che la battaglia di Sassari contro Cagliari deve assumere una caratterizzazione politica più decisa e fondata ideologicamente, deve fare forza su un’opinione pubblica cittadina il più possibile ampia e consapevole del proprio passato”.
Ma a Cagliari si ribatte con uso politico della storia nel campo dell’archeologia e dell’epigrafia, grazie alla spregiudicata forza dell’arcivescovo de Esquivel che esalta la cristianità di Cagliari “e l’incommensurabile santità degli antichi martiri cagliaritani perseguitati in epoca imperiale romana”.
Trascorrono i secoli, arriviamo ai tristi e opachi tempi d’oggi. La Sardegna vive uno squilibrio territoriale a vantaggio delle zone rampanti, Cagliari e Gallura, a discapito di quelle interne e della città di Sassari. Sono fatti politici e concrete scelte economiche, non percezioni quelle che attendono di essere sanate. Senza campanilismi o battaglie settoriali ma rispettando la vocazione dei territori e non solo seguendo equivoche architetture istituzionali profumate di soldi.
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