di Vindice Lecis
Ma servono a qualcosa le Regioni a statuto ordinario (quelle speciali a volte sono anche peggio)? Oppure sono esclusivamente centri di potere e di spesa, ridicoli staterelli gestiti da presidenti che si fanno chiamare pomposamente governatori e che somigliano a dei califfi umorali? La lotta alla pandemia ha dimostrato come l’allentamento di certi vincoli che sovrintendono al corretto funzionamento di una autorità centrale è derivato dal grande potere delle Regioni. Enti sospinti dall’abnorme accumulo di competenze concessi alle Regioni dalla riforma del titolo V della Costituzione fatto approvare dal centro sinistra anche in un penoso referendum, inseguito dalla fase aggressiva e dalla canea di tipo federalista e persino di devolution della Lega di Bossi. Se colleghiamo tale riscrittura, ispirata a un federalismo all’italiana, alle leggi elettorali di tipo maggioritario non possiamo non registrare, a vent’anni di distanza, un sostanziale fallimento politico dell’intero sistema.
In un’intervista rilasciata nel dicembre 1946 all’Unione Sarda, il deputato comunista – assai ascoltato da Togliatti – Renzo Laconi, metteva in guardia dall’imboccare la strada che stava prendendo il dibattito sul decentramento. Sosteneva Laconi che “i democristiani mirano a realizzare nella democrazia italiana un sistema di compartimenti stagni, che consentirebbe il consolidamento di particolari situazioni antidemocratiche”. Il dibattito di quegli anni era certo influenzato dal desiderio di impedire il risorgere di particolarismi, focolai reazionari, Vandee territoriali. Al centro di tutto stava infatti la necessità di costruire uno stato unitario basato su una democrazia parlamentare. Una Repubblica nata dalla sconfitta del fascismo aveva il dovere di essere unita e non un’espressione geografica.
L’estremismo autonomistico sbandierato e praticato dalla Lega di Bossi negli anni ottanta – la Padania, il parlamento padano – condizionò fortemente con le follie sulla devolution il fragilissimo apparato ideologico dell’Ulivo e dei progressisti in genere. L’idea leghista era quella di costruire delle casematte nel nord dell’Italia realizzando una conflittualità permanente con lo stato centrale – sul fisco ad esempio ma non soltanto – e mettendo in ombra la questione meridionale. Anche prima dello scoppio della pandemia venne vagheggiata quella sorta di autonomia differenziata che in termini di servizi e scuola, ad esempio, avrebbe garantito solo un pugno di regioni ricche (Bonaccini e Zaia la pensano allo stesso modo) che avrebbe messo in discussione la solidarietà e l’integrità nazionale. L’egoismo istituzionalizzato in pratica.
Alla prima vera prova dei fatti, di fronte a un’emergenza drammatica come la pandemia, le regioni hanno fallito. Nella gestione dei dati, nell’organizzazione sanitaria, nelle velleità contrapposte tra presidenti rigoristi al napalm e invece quelli affaristi-negazionisti. Abbiamo un elenco sterminato di ordinanze contraddittorie a pochi chilometri di distanza anche tra regioni confinanti sui trasporti, la scuola, gli assembramenti, le mascherine. Un protagonismo parolaio esasperato, provocatorio, livido che ha indebolito la risposta unitaria e che in realtà mirava soltanto a lavarsene le mani chiedendo allo Stato di decidere per loro.
Le Regioni hanno dimostrato di essere parte del problema. Come ha scritto Nadia Urbinati “anche a causa di quel coacervo di poteri concorrenti e mal definiti messi in piedi dal titolo V”.
Ps: altra questione sono le regioni a Statuto speciale che nascono come idea di autogoverno e promanano da una storia di aspirazioni autonomistiche storiche negate e conculcate, come in Sardegna. Quando vennero decise, a loro volta, furono depotenziate dalle spinte che estesero a tutto il paese, come ricorda Umberto Cardia, il regionalismo ordinario, attenuando “il rilievo politico istituzionale e il carattere specifico etnico e storico del regionalismo speciale”.
Una cosa è certa ad esempio: la sanità deve tornare in capo allo Stato.
La vicenda che sta travolgendo la giunta sarda di destra, inciampata nelle discoteche (con la volenterosa complicità di Pd e Leu) conferma che la “specialità” dalle parti della Sardegna è declinata al peggio.
Be the first to comment on "Le Regioni-staterello sono parte del problema"