Il centenario del Pci: la resa dei conti degli storici anticomunisti

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di Vindice Lecis

Libri, articoli di giornale, interviste. Il centenario della nascita del Pci (21 gennaio 1921) sta conquistando più attenzioni di quanto si potesse supporre in questa Italia ormai priva dei partiti architrave della Repubblica e della Costituzione. Forse c’è stupore per il fatto che, pur non essendoci più il Pci, ancora si parli di quella straordinaria vicenda storica. Che appare ancora una materia viva. Ecco perché sono rievocazioni con molte valenze: si passa da lavori onesti, anche critici, a una resa di conti postuma. In questo secondo  campo si distinguono i  liberali, professionisti che non riescono a sfuggire dall’ossessione dei comunisti fornendo immagini deformate dalla lente di lettura figlia della guerra fredda. Ne vedremo qualcuna.

L’idea di questi storici o rievocatori liberali ospitati sulla grande stampa e in qualche casa editrice è che la scissione di Livorno fu un errore tragico di fronte al fascismo. Da questo “errore” sarebbero nati tutti i mali seguenti della sinistra italiana  poiché il Pci era legato inscindibilmente all’idea di “fare come in Russia”, alla organizzazione rivoluzionaria del partito leniniano. Un peccato originale che si sarebbe riverberato in tutta la storia del Pci durata settant’anni (1921-1991) e  liquidata (La lettura del Corriere della Sera del 28 dicembre) nella categoria dei “dilemmi del Pci in mezzo al guado tra Est e Ovest”.

Dietro questo insulso paradigma vengono d’un tratto annullate la storia, le scelte, le sofferenze, le svolte, gli errori, i successi di un partito che è stato l’architrave della democrazia italiana e dei suoi avanzamenti.

La rievocazione della scissione di Livorno, il racconto della opposizione dei comunisti al fascismo, la Resistenza, la costruzione della nuova Italia segnata da varie fasi – l’offensiva reazionaria del 1948, le occupazioni delle terre degli anni cinquanta, la legge truffa del 1953, la ripresa economica, il luglio 1960 e i pericoli di svolta autoritaria, il centro sinistra, la lotta contro l’imperialismo Usa, il Sifar, la strategia della tensione, il 1968-169 degli operai e degli studenti, il centro destra di Andreotti, la vittoria sui clericali del 1974, il successo dei comunisti tra il 1972 e il 1979 con la segreteria Berlinguer, il cupo periodo del terrorismo stragista nero e brigatista, il compromesso storico, l’eurocomunismo e l’alternativa democratica, la crisi del modello del socialismo reale, sino alla caduta del Muro di Berlino e al conseguente – ma non ineluttabile -scioglimento del Pci e il suo passaggio in quel contenitore fragile e insapore del Pds – viene annegato in una melassa indistinta e sgradevole: la “doppiezza” del Pci.

Ne parla senza mostrare incertezze, ad esempio, lo storico liberale (della Luiss, università di Confindustria) Giovanni Orsina che in un dibattito sul Corriere (con Marco Follini (!) e Giuseppe Vacca) sentenzia che la “doppiezza del Pci è un dato di fatto anche se – ammette- il suo peso si riduce negli anni”. Con questa tesi ogni tratto specifico della lunga e articolata storia dei comunisti – piaccia o no anche storia d’Italia – viene avvelenato, annullato, espunto.  Nulla deve essere risparmiato sotto il  bombardamento propagandistico, nemmeno Gramsci: “E comunque – scolpisce Orsina – mi permetto di avere qualche perplessità sulle credenziali democratiche di Gramsci”.

La credenziali democratiche di Gramsci? Ci sarebbe davvero da ironizzare amaramente, ma non è la sede.

In attesa di capire quali siano questi dispensatori di patenti o salvacondotti democratici, il nostro Orsina mette in discussione tutta la politica comunista anche degli anni di Berlinguer in particolare l’idea di unità delle forze popolari. Strategia quasi obbligata, afferma, ma – attenzione – “non ha nulla a che vedere con una democrazia competitiva, perché l’obbiettivo non è costruire una dialettica tra governo e opposizione ma realizzare una convergenza di tutti i partiti che rappresentano un elettorato popolare”. Prospettiva distante dunque “dal sistema occidentale”. Qui si leggono i riflessi critici ai governi di unità nazionale dall’area liberal-socialista e dell’estremismo di sinistra in anni lontani.

E’ mancata al Pci – secondo Orsina – una “compiuta legittimazione a governare che presuppone la piena accettazione dei valori liberali, del sistema capitalistico, dei vincoli atlantici”. Ecco giunti al punto degli storici o dei commentatori di area liberale: il fastidio, la non comprensione di aver avuto in Italia un grande partito dei lavoratori e democratico che voleva costruire una società differente ma pienamente democratica e nel solco dei dettami costituzionali..

Traduzione: per fortuna che al Pci non è stato concesso di governare. E se guardiamo all’oggi la mancanza del Pci si avverte in tutta la sua drammaticità.

 

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