L’estate delle spie: quelle missioni dei servizi segreti Usa in Sardegna nel 1943

Facebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmail

di Aldo Borghesi

Dopo la svolta nelle vicende del secondo conflitto mondiale, che nello scacchiere mediterraneo tra la fine del 1942 e il maggio 1943 costringe le forze dell’Asse a sgomberare l’intera Africa settentrionale, l’Italia diviene per gli Alleati il “ventre molle” della coalizione avversaria, da mettere per prima fuori combattimento. La scelta della Sicilia come obiettivo dello sbarco, compiuta nella conferenza di Casablanca, scaturisce da complesse discussioni sia sull’apertura del secondo fronte continentale, sempre più vivacemente sollecitato dai sovietici per alleggerire la pressione militare tedesca, sia sulla destinazione più opportuna: se la Grecia, come chiede la Gran Bretagna per anticipare la paventata espansione sovietica nei Balcani, o la Sardegna secondo l’orientamento degli USA.

Il problema può apparire secondario nell’articolato contesto delle operazioni; in realtà anticipa le grandi questioni su cui nella coalizione antifascista si aprirà un acceso dibattito nello scorcio finale della guerra. Si tratta infatti di definire la sistemazione politica, a conflitto concluso, sia dell’Europa, sia nella fattispecie di un’Italia per la quale gli Alleati occidentali prevedono soluzioni diverse – gli inglesi di mantenimento della monarchia e predominio delle forze di conservazione, gli Stati Uniti di rinnovamento democratico a partire dalla dimensione istituzionale – ovviamente funzionali agli equilibri che le due potenze intendono stabilire nell’area.

Sotto questo profilo, nella pianificazione e gestione dello sbarco e delle successive operazioni della Campagna d’Italia cominciano a manifestarsi alcune tra le linee di frattura su cui l’alleanza si dividerà nel periodo successivo, e soprattutto a conflitto concluso. Tali divergenze si manifestano – lo sottolinea Elena Aga Rossi nella sua densa prefazione – anche nella conduzione delle operazioni di intelligence, in particolare con la rivalità fra i servizi inglese e americano nella preparazione dello sbarco in Sicilia.

È noto, anche per i risvolti letterari e filmici della vicenda, che l’individuazione della Sardegna come possibile obiettivo dello sbarco viene fatta trapelare, attraverso la romanzesca operazione Mincemeat, allo scopo di depistare l’organizzazione delle difese tedesche. Per contrastare il temuto sbarco, in Sardegna viene così affiancata al XXX Corpo d’Armata italiano la agguerrita 90esima Divisione Panzergrenadier , già fra le unità di punta dell’Afrika Korps tedesco. Meno noti sono i piani di invasione dell’isola elaborati fin dal 1940 dai Comandi inglesi, allo scopo contingente di stabilire una base operativa verso l’Africa nordoccidentale e la penisola italiana, ma anche per ribadire l’egemonia britannica sul Mediterraneo.

Sostenuta dallo stesso Churchill, l’ipotesi di un attacco all’isola è propugnata da Emilio Lussu, il quale cerca di inserirsi nei  progetti inglesi per realizzare il sogno dell’insurrezione antifascista che ha perseguito per tutto il suo lungo esilio. Nel 1943, e nella prospettiva di portare la guerra sul territorio della Festung Europa, occupare la Sardegna avrebbe dovuto indirizzare una pressante minaccia verso l’Italia continentale, in modo da costringere i tedeschi a sgomberare rapidamente la penisola ed attestarsi sulle Alpi a difesa del proprio territorio nazionale.

Lo Special Operations Executive (SOE) inglese invia così in gennaio  una missione di due uomini che sbarcano in Ogliastra con il presumibile compito di organizzare gruppi di oppositori armati; vengono trovati in possesso di una lista di indirizzi e riferimenti che porta in carcere un gruppo di ignari antifascisti tra cui l’avvocato nuorese – futuro senatore e ministro democristiano – Salvatore Mannironi. Fortuna non migliore arride ad altre missioni nei mesi di maggio e luglio, con compiti analoghi ma con la sostanziale finalità di distogliere l’attenzione del nemico dall’obiettivo autentico, la Sicilia.

In questo contesto si collocano le due missioni Bathtub (vasca da bagno, bagnarola) organizzate dall’Office of Strategic Services (OSS), il servizio di intelligence statunitense dal quale nel 1947 prenderà origine la CIA. Il servizio segreto americano, intenzionato ad affermare la propria autonomia progettuale e operativa dagli alleati, impiega personale adeguatamente addestrato, fra il quale spiccano elementi nati in Sardegna o da essa originari, reclutati tra l’emigrazione isolana negli States, che parlano perfettamente italiano e sardo. Di particolare rilievo le figure di due ozieresi, Antonio Anthony Camboni e Giovanni John Demontis, negli USA dall’immediato dopoguerra: commerciante di bilance a Chicago, figlio di un socialista schedato, il primo; proprietario di un drugstore a Detroit il secondo. Il loro compito – ufficialmente la creazione di una rete di spionaggio e di gruppi di resistenza attraverso contatti con i “fuorilegge della Sardegna orientale” – è in sostanza quello di convincere, una volta catturati, il controspionaggio italiano dell’imminenza di un’operazione l’isola (dieci giorni più tardi prenderà il via l’operazione Husky sulle spiagge meridionali della Sicilia). Un ulteriore capitolo di quel “gioco delle isole” (l’espressione è dell’autrice del libro) impegnato dagli Alleati prima di scoprire le carte con l’operazione Husky.

La missione è diretta nella zona di Monte Mannu, imponente rilievo vulcanico che sovrasta il litorale a nord di Bosa; da lì dovrebbe dirigersi a Monte Minerva, prendendo contatto con la famiglia Diaz, proprietaria di une tenuta agricola e di sentimenti antifascisti. Il gruppo, giunto da Algeri su motosiluranti, sbarca invece diverse decine di chilometri più in là, a Capo Mannu, in Nurra, sul mare di fuori poco a nord dell’Argentiera. Presa faticosamente terra e scalata non senza problemi la ripida falesia rocciosa, la missione viene intercettata da una pattuglia italiana, alla quale non è difficile presentarsi come un piccolo reparto che ha perso l’orientamento e chiede informazioni sull’itinerario da seguire. Solo più tardi la difesa costiera realizza di trovarsi di fronte a nemici – che vestono tra l’altro la divisa dell’esercito regolare statunitense – e li arresta.

Inizia qui un rocambolesco succedersi di incarceramenti, interrogatori da parte dell’assai poco efficiente controspionaggio italiano, minacce di fucilazione, atti di solidarietà da parte di carcerieri e Carabinieri fra i quali Camboni e Demontis ritrovano diversi compaesani. L’annuncio dell’armistizio sorprende i componenti della missione al porto di Olbia, mentre attendono l’imbarco verso un campo di prigionia della penisola. Vengono invece riportati a Sassari e immediatamente messi in libertà.

Meno vicina al canone della spy story, la vicenda della missione Bathtub II non è peraltro priva di aspetti avventurosi. In una notte di plenilunio, una pattuglia dell’OSS scende col paracadute sulle alture intorno a Siliqua; al comando, niente meno che un principe russo in esilio, Serge Obolensky, che un‘età non più verdissima non ha distolto dall’affrontare un sommario addestramento al lancio ed una missione non priva di rischi. È il 13 settembre, i reparti tedeschi stanno evacuando l’isola, l’eventualità di incontri indesiderati con il nemico non è affatto da escludere. Il capitano riesce a raggiungere l’aeroporto di Decimomannu e poi Bortigali: per il comandante militare della Sardegna, generale Antonio Basso, ha messaggi inviati da Castellano, firmatario italiano dell’armistizio di Cassibile, e persino del comandante delle forze alleate nel Mediterraneo, Dwight Eisenhower. Tutti sollecitano Basso perché impedisca la ritirata delle truppe tedesche in Corsica, dove senz’altro ostacolerebbero la liberazione dell’isola, e dalla quale realizzerebbero un prevedibile passaggio sul continente per rafforzare ulteriormente quel dispositivo bellico che per due inverni inchioderà l’avanzata anglo-americana sulle linee Gustav e Gotica.

Ma Basso, o che applichi la massima secondo cui al nemico che fugge ponti d’oro, o che lasciare via libera ai tedeschi lo sollevi dal problema di doverli affrontare, in ogni caso al di fuori di ogni visione strategica del conflitto, fa letteralmente orecchie da mercante. Se si pensa che la finzione operativa secondo la quale le unità italiane seguono la ritirata tedesca senza minimamente ostacolarla – naturalmente ad eccezione dei pochi e proprio per questo ancor più onorevoli episodi di resistenza – viene pomposamente definita nella documentazione ufficiale “guerra di liberazione della Sardegna”, c’è da riflettere sul contributo bellico che la 90esima  Divisione Granatieri corazzata ha dato allo sforzo bellico tedesco e al conseguente protrarsi dell’occupazione dell’Alta Italia. Ma non solo: la stessa divisione occupa il suo bravo posto nell’Atlante delle Stragi nazifasciste come reparto responsabile di uccisioni di civili. La Sardegna può senz’altro benedire la “saggezza” del suo comandante militare; il conto di tanta chiaroveggenza è finito sul tavolo di altri.

Bathtub II comunque diventa l’avanguardia dello sbarco delle forze alleate, riceve come tale  le prime accoglienze entusiastiche della popolazione civile e comincia a misurarsi con i problemi dominanti dell’isola nello scorcio finale del conflitto e nell’immediato dopoguerra: dalla neutralizzazione dei residui esponenti fascisti, al sorgere anche tra le Forze armate di nuclei clandestini in collegamento con lo spionaggio della RSI, al trasferimento dalla Corsica delle unità italiane che avevano partecipato alla lotta di liberazione, agli enormi problemi di isolamento e approvvigionamento che travaglieranno la vita economica e civile ben oltre la fine della guerra.

Questo volume si aggiunge a una serie di studi sulla Sardegna nel secondo conflitto mondiale che diviene sempre più numerosa e qualificata. Sempre troppo poco, verrebbe da dire. Non solo per ciò che quella guerra rappresenta nella storia dell’umanità, o anche solo del continente e del nostro Pese; non solo per la rovente attualità dei motivi che l’hanno ispirata e scatenata e per la persistente necessità di una conoscenza approfondita ed analitica delle ragioni dell’uno e dell’altro schieramento e delle rispettive componenti interne; non solo perché da quella guerra, dal modo in cui si è conclusa sono scaturite le caratteristiche fondanti della contemporaneità italiana e sarda; ma anche per un motivo più strettamente legato alla specifica realtà dell’isola.

Con poche eccezioni – e fra esse la prima guerra mondiale – in Sardegna è diffuso, anche fra quanti possiedono una formazione culturale non mediocre, un senso di estraneità nei confronti della “grande” storia, degli avvenimenti e dei processi di maggiore rilevanza del mondo contemporaneo. I portatori dei valori dell’Ottantanove, i nostri progenitori li hanno presi a fucilate a Quartu e a cannonate a La Maddalena, rigettandoli a mare; il Risorgimento è solo il culmine di un processo di colonizzazione straniera che ci riguarda solo come oggetti e vittime; la modernizzazione ci ha semplicemente sfiorati fino a tempi recenti; durante il biennio rosso gli altri volevano fare come in Russia e a noi interessava l’autonomia (o, nella vulgata corrente, un’indipendenza che in realtà era obiettivo di minoranze esigue e nemmeno molto qualificate), il fascismo nostrano non ha nulla a che vedere con quel che ha rappresentato fuori; l’autonomia infine raggiunta si è rivelata da subito il gatto della nota frase di Lussu; nella democrazia repubblicana abbiamo sempre contato e tuttora contiamo quanto il due di coppe; e per di più non ci danno (si notino il verbo e la sue forma) nemmeno il seggio che ci spetterebbe a Strasburgo.

Meglio, assai meglio, rifugiarsi in un passato di glorie remote, vere o presunte: il Medioevo giudicale, la preistoria nuragica o fatti ancora più remoti e meno scientificamente ricostruibili; e quanto meno se ne sa – o quanto meno ciò che se ne sa quadra con il tipo di immagine consolatoria che se ne vuole ricavare – tanto più si cerca di sostituire alla conoscenza storica qualcosa che, comunque lo si voglia definire, conoscenza non è. Che la dimensione del mito e dell’invenzione sia fondamentale nella coscienza e dell’agire umano, nessuno lo mette in dubbio; basta non scambiarle per quello che non sono. Quanto poi su di esse si possa solidamente costruire ciò che in genere si fonda su basi di solida conoscenza e coscienza, è discorso che esula dal nostro.

La seconda guerra mondiale nella memoria collettiva dell’isola è articolata per lo più secondo un’ottica strettamente localistica: i nostri soldati mandati a morire in terra e in mare; i bombardamenti; lo sfollamento, le benedizioni al generale Basso, i tedeschi “buoni”, gli americani ugualmente “buoni” ma anche tanto molesti; una guerra civile che sembra avvenuta all’altro capo del pianeta; la cortina di oblio sui suoi protagonisti locali (dell’uno e dell’altro campo, sia chiaro); l’isolamento, la fame, la miseria, le cavallette, tutt’al più le aspettative di cambiamento profondamente deluse; ma in definitiva, un assai limitato cambiamento delle condizioni di vita materiale, della cultura, del rapporto con lo Stato e le istituzioni.

Ben pochi si rendono conto di quanto in realtà siano originali e preziosi certi tratti della storia sarda di allora, rispetto al panorama italiano ed europeo. L’isola è una delle primissime terre d’Europa che possono smettere di occuparsi della guerra guerreggiata, dell’occupazione tedesca, di un fascismo che sopravvive a se stesso aggravando se possibile le malefatte dell’occupante, di uno scontro civile che comunque lo si voglia considerare è doloroso, lacerante, traumatico, di operazioni belliche portate di borgata in borgata, di paese in paese, di città in città, da un pendio di collina e da una vallata all’altra; e può invece iniziare ad occuparsi del dopo.

Un dopo rispetto al quale rappresenta un formidabile laboratorio. Non solo perché vi riprendono precocemente il libero confronto civile, il dibattito politico e culturale (nessuno oggi sembra ricordarsi che in una Sardegna pur privata del suo centro principale, ridotto a cumulo di rovine, si sviluppa quella straordinaria palestra di elaborazione e scambio di idee che era la rivista “Riscossa”), il tentativo di lasciarsi alle spalle anche la dimensione antropologica di un fascismo che prefiggendosi la costruzione dell’ “uomo nuovo” era giunto a pervadere la vita collettiva e perfino le dimensioni della famiglia e della coscienza individuale; e perché nell’isola cominciano a prendere consistenza i non pochi problemi che a tutto questo sono connessi. Sono fenomeni che, in modi e forme diverse, avvengono anche nel resto del Meridione liberato, e più o meno negli stessi tempi con cui accadono qui.

Ma quel che volutamente oggi si trascura è il profilo elevatissimo del confronto che si sviluppa su temi di attualità ancora scottante nel dibattito politico italiano: quali la struttura dello Stato, il rapporto centro-periferie, l’equilibrio da realizzare in una compagine statale sempre più squilibrata sotto il profilo economico e civile, nella quale tuttavia esisteva ed esiste una dimensione locale della vita, della cultura, dell’identità che non si può in alcun modo considerare come elemento trascurabile o negativo. In Sardegna di tutto questo si discute vivacemente nel 1943-1945: si discute in modo approfondito di autonomie, della necessità di marcare, nella democrazia che nascerà alla fine del conflitto, una distanza quanto più possibile accentuata e dal nazionalismo fascista e dal retaggio centralista postunitario, dando al nuovo Stato una struttura federale. Del grado di attenzione e di consenso che questi progetti raccolgono è eloquente testimonianza un elemento caratterizzante del panorama politico sardo di allora, dall’originalità evidente rispetto al quadro peninsulare: la preminenza numerica del Partito Sardo d’Azione (su cui continuamente insistono anche le relazioni sulla situazione delle province che mensilmente i prefetti indirizzano al Ministro dell’Interno), ovvero di un partito regionale, di matrice laica e democratica, con vasto radicamento nel mondo rurale, e che soprattutto individua nella battaglia autonomistica la sua ragione d’essere. Laddove nelle altre regioni già si va consolidando l’egemonia del blocco moderato e continuista a trazione democristiana, che alla fine si affermerà anche in Sardegna, ma ben più tardi e con contraddizioni più accentuate che sul continente. Ciò che è verosimilmente più importante rispetto ad aspirazioni indipendentiste assai meno presenti, vitali, elaborate, dense di carica e proposte rinnovatrici, e che quando si presentano alla prova elettorale ottengono in definitiva un pugno di voti di assai scarso rilievo.

Per questo motivo, di studi seri come questo ce n’è necessità ed essi meritano attenzione e valorizzazione adeguate. L’autrice, Carla Cossu, proveniente dall’insegnamento superiore e dalla militanza culturale nell’ANPI, della quale presiede il Comitato provinciale di Oristano, si è negli ultimi anni segnalata per aver messo a disposizione degli studiosi alcuni importanti ed aggiornati strumenti on line, quali gli Atlanti dei partigiani e degli antifascisti della sua provincia. La sua ricerca prende le mosse dalla ricca documentazione archivistica dell’OSS, di recente declassificata e resa disponibile agli studiosi dalla National Archives and Records Administration in forma digitale. Oltre al paziente ed attento scavo nei documenti statunitensi, il volume è corredato da un ricco e curato apparato critico e da un’ampia bibliografia: ciò che richiama all’importanza di adottare impianti metodologici e costumi di ricerca fondati e rigorosi, in un momento nel quale – soprattutto in Sardegna – si parla di storia con sconcertante approssimazione, persino in ambienti culturali di elevato profilo.

Ed in tempi di pandemia, che per gli studiosi vogliono dire di biblioteche ed archivi o del tutto chiusi o accessibili solo a prezzo di incredibili e poco comprensibili difficoltà e limitazioni, è importante notare anche la grande quantità di rimandi critici e bibliografici a documenti e fonti reperibili nella Rete. Perché per fermare una ricerca seria e uno studioso determinato a condurla, ci vuole altro che un virus.

Carla Cossu, L’estate delle spie : i servizi segreti americani in Sardegna nel 1943  (prefazione di Elena Aga Rossi, postfazione di Vindice Lecis, Cagliari, Condaghes, 2020)

Facebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmailFacebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedinmail

Be the first to comment on "L’estate delle spie: quelle missioni dei servizi segreti Usa in Sardegna nel 1943"

Leave a comment