di Vindice Lecis
Il Pci non esiste più da trent’anni ma la sua presenza nella storia d’Italia è ancora forte e viva. Di conseguenza pesa la sua assenza e manca la sua linfa vitale alla democrazia italiana e alla Repubblica. Cent’anni dopo la nascita del Pcd’I, diventato in seguito Pci, sono state numerose le pubblicazioni, le rievocazioni, le iniziative politiche e culturali di studio e di confronto. Ma purtroppo rare, rarissime sono state le occasioni ben riuscite per raccontare davvero che cosa è stato il Pci. Intendiamoci: quella storia non è stata una marcia trionfale, per citare un giudizio e un ammonimento di Togliatti, né tantomeno è stata scevra di errori. Per i marxisti la storia è fatta di conflitti e contraddizioni, avanzamenti e arretramenti, svolte – come si diceva – o anche brusche sterzate. Ma ciò che è accaduto nella ricostruzione di questo centenario, in particolare da parte dei grandi mezzi di comunicazione e di molti ambienti accademici di estrazione liberale (ma non solo) è stata la negazione di quella storia. Si è colta anche questa occasione per chiudere i conti con quella vicenda, con il suo segno profondo impresso nella storia italiana e del movimento operaio internazionale. Giornalisti, storici o divulgatori, hanno utilizzato questa occasione per tentare di mettere una pietra tombale sul Pci, la sua funzione, la sua anomalia. Nonostante i loro sforzi, non ci sono riusciti.
Al contrario, invece, un film di mezz’ora ci restituisce improvvisamente, squarciando un cielo plumbeo, i punti salienti della storia del comunismo italiano. Ci rimanda al senso di comunità presente in quel partito, alla sua forza organizzata, al suo essere parte della classe lavoratrice che ambiva a farla diventare sempre più classe generale nel segno dell’egemonia. Che guardava allo sviluppo massimo della democrazia e alla costruzione del socialismo. Che ha avuto alla sua testa (da Gramsci a Togliatti, da Longo a Berlinguer) uomini che avevano ben chiara l’idea di un partito che fosse sempre impegnato in un’attenta ricognizione nazionale per la conquista del consenso per porsi come forza nazionale di governo in quanto rappresentante della classe operaia.
E’ la sensazione che ho provato guardando e ascoltando Cent’anni dopo, un film di Monica Maurer e Milena Fiore prodotto dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico con il sostegno dell’Associazione Enrico Berlinguer , testi dello storico Alex Hobel e la voce narrante di Sandro Casalini. Un film che attrae e interessa per ciò che mostra. Ma che lascia anche un senso di dolore e gioia: per quello che siamo stati e che non siamo più.
Il pacato ragionare di Aldo Tortorella ripercorre i settant’anni di vita comunista da Livorno in poi. Ma sono le immagini a dirci tutto o quasi tutto. Facce, volti, mani e pugni chiusi, vestiti, bandiere, sorrisi. Tensione ideale e consapevolezza del proprio ruolo che hanno accompagnato le grandi scelte del Pci dal 1921 sino alla caduta del fascismo e alla ricostruzione democratica: perché all’ispirazione della ricerca del consenso (senza perdere i propri connotati rivoluzionari) il Pci è rimasto fedele.
Le immagini del film e le emozioni che trasmette ci spiegano proprio la singolare capacità del Pci di moltiplicarsi, di espandersi, di andare avanti in condizioni nuove (Togliatti). E ci portano a osservare ciò che è stata l’Italia e il Pci insieme a lei. La scissione di Livorno, l’ascesa del nuovo gruppo dirigente attorno a Gramsci, la reazione squadristica, la clandestinità, il buio del fascismo e la guerra. Per proseguire con filmati rapidi e incalzanti e testi essenziali e densi che ripropongono la lotta di liberazione, le Brigate Garibaldi, la Repubblica e la Costituzione.
Nel dopoguerra il Pci in condizioni difficili, di aperta discriminazione e sotto la stretta della Guerra Fredda, seppe resistere diventando il fulcro della difesa della Repubblica e della sua Costituzione mettendo le basi per conquistare nuovi ceti ed elaborare una strategia di grandi riforme sociali. Il partito dunque “patriottico” (Berlinguer) della via italiana al socialismo, delle riforme di struttura, degli interessi nazionali.
Ogni scelta, ogni svolta, ogni avanzamento o sconfitta non sono stati però patrimonio di un ristretto gruppo dirigente ma la memoria storica di milioni di persone, donne e uomini.
Il film guarda il Pci dalla “parte delle sue radici”, quelle che (piaccia o no a Ezio Mauro o Paolo Mieli o altri) sono la garanzia e le credenziali di una forza fondante della democrazia, della sua difesa e del suo sviluppo.
Le immagini scelte, il loro montaggio efficacissimo parlano da sole. Ci raccontano il popolo comunista nel suo svilupparsi e nel cambiare. Dalle grandi mobilitazioni degli Anni Cinquanta per la pace e la ricostruzione alle lotte per la terra, giungiamo a quelle palpitanti dei funerali di Togliatti, del ’68 giovanile e del ’69 operaio che aprirono una stagione di conquiste. E in tutte quelle battaglie il Pci non si sottrasse, non si isolò ma fu parte attiva e dirigente e operò per rappresentare e organizzare grandi spinte popolari e democratiche.
Passano davanti agli occhi le scelte della segreteria di Berlinguer, di un Pci al massimo storico, escluso dal governo per scelta internazionale. Un partito che trae spunto dalla “lezione cilena” per proporre “un nuovo grande compromesso storico tra le forze popolari”, che diventa il partito dei diritti collettivi (divorzio, aborto), del buon governo delle città, che si batte senza risparmio al fianco dei lavoratori della Fiat, dei terremotati dell’Irpinia, contro i missili e il disarmo. Per finire emblematicamente con la battaglia contro il taglio della scala mobile voluta da Craxi e Confindustria sino alla morte di Enrico Berlinguer.
Quando il film si avvicina alla conclusione scorrono i volti di Alessandro Natta e poi di Achille Occhetto che teorizza il “nuovo Pci”. Ma in realtà dalla Bolognina in poi lo liquida, lo accantona, lo svuota per trasportare quell’immenso patrimonio verso il dissolvimento di lì a poco.
Cent’anni dopo è un’occasione ben riuscita per guardare e ascoltare ciò che è stata la lunga e importante vicenda del Pci con un approccio storico e di cronaca attento, rispettoso, intelligente. Un lavoro di grande forza, figlia di una consapevolezza critica.
Perché narrare è resistere.
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