La vera “die de sa Sardigna”: quando i villaggi logudoresi “abolirono” il feudalesimo

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di Vindice Lecis
Il 28 aprile la Sardegna “festeggia” la cacciata dei piemontesi e del vice re savoiardo avvenuta nel 1794.
Ma se c’è una data, o meglio più date, che dovrebbero essere ricordate con altrettanta solennità non è solo quel 28 aprile – che non intaccava le basi dell’oppressione del popolo sardo – ma il 24 novembre 1795 e il 17 marzo 1796.
Il 24 novembre a Thiesi, i rappresentanti dei consigli comunitativi, i cavalieri, i capifamiglia di Thiesi, Bessude e Cheremule – in tutto 113 persone – che costituivano il marchesato di Montemaggiore, davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta di Osidda, firmavano un atto pubblico in cui giuravano “di non riconoscere più alcun feudatario”.
Un atto rivoluzionario, un fatto “strepitoso” come scriveva il democratico “Giornale di Sardegna”, un atto solenne “con il quale il movimento contadino assumeva definitivamente una nuova connotazione ” (G. Sotgiu).
Poco più di un mese dopo migliaia di donne e uomini guidati dagli angioiani Francesco Cilloco e Gioachino Mundula prendevano d’assalto Sassari – diventata per breve tempo il centro della reazione feudale – e la conquistavano arrestando il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre.
E mentre a fine febbraio Giovanni Maria Angioy col titolo di alternos viceregio entrava a Sassari e per quattro mesi alla guida del capo di sopra metteva in atto una sorta di governo democratico, altri villaggi rifiutavano in modo esplicito il feudalesimo pur dichiarandosi pronti a pagare una sorta di risarcimento ai baroni.
Il 17 marzo 1796 i consigli comunitativi e i “più distinti” capifamiglia di Ittiri e Uri – più di 800 persone – giuravano “di non riconoscere più alcun feudatario”. A Ittiri, nei mesi seguenti, giunsero ad abbattere parte del palazzo baronale dei conti Ledà.
Il 27 marzo toccava di nuovo a Thiesi, Bessude e Cheremule stipulare un “atto di unione” e di sostegno ad Angioy – già minacciato dai reazionari degli Stamenti.
Il 28 marzo toccava a Bonnanaro, il 29 a Siligo, il 3 aprile a Bonorva e così via. Atti di sfida non solo ai feudatari ma anche alla rappresentanza per ceto degli Stamenti (Parlamento).
Come si legge in un pamphlet anonimo (forse scritto da Gioachino Mundula e dal lussurgese Michele Obino) intitolato “L’Achille della sarda liberazione” bisognava esigere “l’abolizione perfetta della tirannia” e dunque del feudalesimo. Di conseguenza guerra aperta anche ai piemontesi che trattavano la Sardegna “come una colonia americana”.
Parole di enorme modernità, frutto anche del clima creato in Europa dalla Rivoluzione Francese.
Un triennio, quello sardo, che deve essere studiato e approfondito ancora senza retorica o intenti propagandistici per farlo diventare autentico patrimonio di tutti.
I documenti delle ville sono depositati nell’Archivio di Stato di Sassari, nei ponderosi atti notarili, sfuggiti all’ordine di distruzione del vice re Vivalda e del giudice-boia, il tempiese Valentino.
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RIVOLTA ANTIFEUDALE E SARDA RIVOLUZIONE: RACCONTIAMOLA TUTTA
Il 28 febbraio 1796, Giovanni Maria Angioy, giudice della Reale Udienza insignito del titolo di Alternos dal viceré piemontese Filippo Vivalda, entrava a Sassari dopo un viaggio trionfale attraverso la Sardegna durato 16 giorni.
Migliaia di persone accolsero e accompagnarono a Sassari il patriota e rivoluzionario che procedeva avvolto “in un mantello di vaio rosso a grandi baveri di gallone dorato che dalle spalle drappeggiava sulla cavalcatura” (F. Sulis, “Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821”). La grande speranza degli abitanti del Logudoro di liquidare il dominio feudale e dei baroni a Sassari faceva un gran passo perché “si proclamava la rivoluzione! Difatti il grido universale fu quello di abbasso i nobili, abbasso i preti, viva Angioi, viva la libertà, viva la repubblica” e Angioi che quelle istanze voleva rappresentare “sfavillando dagli occhi gli affetti dell’animo, prevedeva tra la calca e a passo lento a capo scoperto, col sorriso sul labbro, colle mani in alto levate per il saluto”. (F. Sulis).
Angioi era stato inviato nel nord dell’isola per tentare di incanalare le sollevazioni contadine dell’estate del 1795 e dell’autunno dello stesso anno. Insorgenze che avevano prodotto atti di straordinario valore che mettevano in discussione dalle fondamenta – spaventando i governanti piemontesi appoggiati dai moderati sardi degli Stamenti parlamentari – il regime feudale.
Il terreno era stato preparato dalla componente democratica impersonata, oltre che da Angioi, da Cilloco, Mundula e molti altri che avevano operato per un’estensione del movimento contadino e rivoluzionario. Ad esempio il 24 novembre con atto notarile 113 vassalli di Thiesi Cheremule e Bessude avevano decretato e giurato di non riconoscere più alcun feudatario (in quella zona era il duca di Vallombrosa) dicendosi disposti anche a indennizzare il nobile. Nel corso dei mesi decine e decine di ville sarde, in gran parte nel Logudoro ma non solo – da Tissi a Ossi, da Ittiri a Uri, e ancora Usini, Ozieri, Bonnanaro, Villanova Monteleone, Romana, Ploaghe, Codrongianus, Mores, Padria, Cossoine, Orani, Sarule, Dorgali, Galtellì, Las Plassas, Villasor e molte altre – avevano inviato denunce agli Stamenti per chiedere giustizia esponendo elenchi di soprusi e lagnanze.
Due mesi prima dell’arrivo di Angioi a Sassari, Francesco Cilloco e Gioacchino Mundula alla testa di migliaia di armati – contadini, braccianti, piccoli proprietari, donne, sacerdoti – avevano espugnato la città dopo brevi ma sanguinosi combattimenti. La città in mano ai baroni più reazionari – Manca duca dell’Asinara e Leda d’Ittiri su tutti – appoggiati dal governatore Santuccio e dall’arcivescovo della Torre, avevano organizzato una secessione del Capo di Sopra in funzione anti stamentaria e contro il viceré, arrivando persino a mettersi sotto l’ala protettrice degli inglesi. Ma l’esercito contadino “organizzato, deciso, entusiasta e disciplinato” mise in fuga i riottosi baroni e arrestò governatore a arcivescovo portandoli a Cagliari.
Un atto di enorme valore.
In questo frangente la componente moderata degli Stamenti – che aveva partecipato alla cacciata dei piemontesi del 1794 ma che non voleva mettere in discussione l’assetto feudale protetto e foraggiato dai Savoia – si alleò con la parte più reazionaria per arginare il movimento contadino antifeudale e democratico.
Si liberarono di Angioi spedendolo da Cagliari a Sassari. Ma l’alternos in pochi mesi di governo del Capo di sopra rafforzò i legami con la popolazione (risolse, ad esempio, il problema dell’approvvigionamento del grano) e sostenne e ispirò gli “atti di unione e concordia “ tra paesi. Si trattava di atti, ricorda lo storico Girolamo Sotgiu (nel suo fondamentale “Storia della Sardegna sabauda”, 1984), come quelli sottoscritti a Thiesi il 27 marzo e a Bonorva il 3 aprile 1796 che si impegnavano a sostenere le rivendicazioni antifeudali “anche a costo del proprio sangue” e che sono di gran lunga più avanzate rispetto agli atti dell’anno prima: non rifiutano cioè solo il feudalesimo ma intendono “stabilire un nuovo rapporto “ con gli stamenti.
Angioi decise di portare a Cagliari queste istanze e si rifiutò – come chiedeva il vicerè – di fare l’esattore per conto dei baroni. Cominciò una marcia il 2 giugno partendo da Sassari. I moderati e i reazionari uniti decisero di chiudere il conto con le istanze democratiche. Angioi sconfitto a Oristano ritornò a Sassari con pochi fedeli e il 17 giugno si imbarcò da Porto Torres per Genova. Morirà esule a Parigi nel 1808.
La repressione congiunta dei piemontesi e dei sardi reazionari (il voltagabbana avvocato Pintor, il giudice boia Valentino e molti altri) fu spietata e raggiunse vette di crudeltà e orrore anche se altri sommovimenti “giacobini” si ebbero per molti anni ancora.
Attorno al triennio rivoluzionario sardo e alla figura dell’Angioi da tempo si è riacceso l’interesse legandolo, finalmente, ai sommovimenti culturali, ideali e della rivoluzione francese con le sue alterne vicende. Facendolo cioè uscire dall’angustia di celebrazioni retoriche e fintamente autonomistiche che hanno il loro fulcro in “sa die de Sa Sardigna” che ricorda il 28 aprile 1794 e cioè la cacciata dei funzionari piemontesi – reazionari come pochi in Europa – ma mettendo in ombra la vera novità storica che si aprì con i movimenti antifeudali, democratici e persino repubblicani.
(nella foto: Giuseppe Sciuti, Entrata di Giovanni Maria Angioi a Sassari, 1879, Palazzo della Provincia di Sassari)
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