di Vindice Lecis
Alla Sardegna priva di visione e di prospettiva. Alla Sardegna disperata, immersa negli antichi squilibri e in quelli drammatici dell’oggi, serve un nuovo progetto. Pari per grandezza, almeno a quello che, per anni, mobilitò il popolo sardo e le sue migliori coscienze attorno all’idea del Piano di Rinascita e della programmazione regionale. Idee che, tuttavia, crearono aspettative e risultati inadeguati alle attese e alle reali necessità.
Non si intravvede ancora nessuna luce in fondo al tunnel. L’ottimismo di facciata è uno spaccio di illusioni. Perché la Sardegna è pienamente dentro la crisi e non saranno alcuni pallidi riflessi congiunturali del meno peggio a far gridare alla svolta. D’altra parte, quando manca il dialogo sociale e una visione chiara della Sardegna e del suo destino, si può illudere ma non convincere.
Perché se il tasso di disoccupazione si attesta all’11,2%, tre punti sopra la media nazionale e i contratti a tempo determinato rappresentano il 75% del totale, non è consentito a nessuno di parlare di ripresa.
La situazione economica e sociale è costellata da disagio, dolore, povertà. L’isola è una strada lastricata da punti di crisi. Di impianti industriali smantellati. Non avanza la riconversione o il rilancio di importanti realtà produttive nei settori chimici, metalmeccanici ed estrattivi. E alla Sardegna serve l’industria. Non solo quella delle importanti realtà di Eni, Saras, Eurallumina o Sider Alloys ma anche, e specialmente, di un reticolo di piccole imprese legate al territorio: dall’agro industria alle biotecnologie alla meccanica di precisione.
Serve un piano straordinario per l’occupazione. E progetti per quella femminile che intervengano, per la rimozione degli ostacoli che impediscono alle donne – ai diritti negati – di poter accedere sul piano della parità al mercato del lavoro.
Bisogna dunque mettere il lavoro sicuro, stabile ed equamente retribuito al centro della campagna elettorale e della futura agenda politica. Per far questo, servono molte precondizioni, come quella di avere una burocrazia snella, trasporti adeguati e certezze sull’energia.
E’ ormai chiaro che la strada seguita esclusivamente col piano Lavoras – definito solo dopo una mobilitazione sindacale in assenza di risposte – non sia sufficiente. Pochi i cittadini coinvolti, insufficienti le risorse. La disoccupazione resta ancora a due zeri con un’altissima percentuale di giovani. Certamente quel piano può e deve essere migliorato con un aumento dei finanziamenti e dei progetti. Ma non può essere considerato la leva per far ripartire la Sardegna.
Governare significa compiere scelte. Con la convinzione che l’occupazione debba essere la principale preoccupazione di chi amministra la cosa pubblica. Servono idee, progetti e, specialmente, cantieri aperti. Bisogna sbloccare i lavori fermi e farlo d’intesa con gli enti locali, baluardo essenziale. Occorrono interventi pluriennali in investimenti produttivi – non più sostenuti da finanziamenti col contagocce – nel riassetto idrogeologico, nella formazione e nell’istruzione, nei beni culturali, nel rilancio dell’agricoltura sarda e del nostro export alimentare in netta discesa. Così si potrà arginare lo spopolamento delle zone interne. Servono iniziative per far tornare i giovani, magari associati in cooperative, in agricoltura
L’investimento pubblico resta essenziale e lo Stato deve concorrere allo sviluppo. Tuttavia anche le imprese devono fare la loro parte, non soltanto lamentarsi di avere troppi lacci e lacciuoli. Sono state infatti beneficiate da un flusso gigantesco di risorse con gli incentivi del jobs act che ha cristallizzato e istituzionalizzato la precarietà con l’infernale meccanismo delle tutele crescenti e della diminuzione degli ammortizzatori sociali. Una norma feroce che ha condannato un’intera generazione all’assenza di prospettive.
Il jobs act è infatti l’effetto delle politiche liberiste e dell’austerità in Europa. Il simnbolo di lunghi anni di attacco al diritto al lavoro. Una scelta imposta dall’Europa della finanza e dal Fondo monetario internazionale alla lunga trafila di governi succubi di quelle politiche, da Mario Monti sino a Gentiloni, passando specialmente per Renzi. Imprese che, passata la festa degli sgravi, hanno poi rimandato a casa i lavoratori che avevano assunto – magari due o tre volte – con contratti a tempo.
E’ tempo invece che anche le imprese investano, non solo per i loro profitti. Smettano di lamentarsi perchè hanno avuto la strada spianata in questi anni. Innovino e restino con i piedi e il cuore in Sardegna.
Quando sogno una svolta sul lavoro sono convinto che questa avverrà solo con un tipo di occupazione stabile, non precaria. E con una equa retribuzione.
Servono piani per mettere in sicurezza la Sardegna. Ma sul serio. Non è possibile che ad ogni stagione si ripetano i disastri ambientali. La prevenzione si attua utilizzando uomini e mezzi già disponibili e occupando anche giovani in progetti finalizzati a rimettere in sicurezza fiumi e canali; investire finalmente per l’adeguamento della dissestata rete infrastrutturale e per la tutela e la valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale e archeologico sparso nella nostra isola che rappresenta una delle radici identitarie e storiche più importanti. Con la cultura si mangia, con la cultura si lavora, con la cultura si può costruire occupazione qualificata e stabile.
Alla Sardegna serve immaginare uno sviluppo moderno, che non aspetta nessun ritardo con la storia. Si tratta di aprire un confronto – con le forze sociali anzitutto – e compiere scelte a favore della cosiddetta economia verde oltre che della blue economy per agevolare un sistema ecosostenibile, del digitale. Per impedire che tutto possa restare un raffinato libro dei sogni occorre che si facciano le cose essenziali. Come si fa infatti a parlare di lavoro e sviluppo se noi sardi siamo prigionieri per l’ inadeguatezza dei trasporti interni e quelli di collegamento? Come si fa a parlare di digitale quando in molte delle nostre zone la rete è smagliata e i collegamenti sono a singhiozzo quando non mancano del tutto?
Bisogna mettersi in ascolto. Non per finta, non per far avanzare una concertazione truccata. Bisogna saper avvertire il dolore e anche le esigenze profonde della nostra isola. Mettendo da parte con un’azione coraggiosa la malsana idea di un liberismo al pane carasau.
Occorre dunque trovare insieme idee guida che mobilitino i sardi – come furono per decenni quella del Piano di Rinascita e della programmazione – attorno a una visione del futuro fatta di lavoro, sviluppo sostenibile, difesa della nostra identità. Per farlo, serve un grande progetto di svolta, preparato con tutti i territori e gli enti locali e territoriali, coinvolgendo le categorie produttive, le grandi organizzazioni sindacali e le forze sociali. E mettendo da parte quel dirigismo centralistico che ha danneggiato la nostra autonomia e fatto allontanare i sardi dalla partecipazione alle scelte.
“Unità, e coscienza che i nostri destini dobbiamo costruirceli noi stessi, col sacrificio che non v’è conquista o vittoria senza dolore e senza pena”, diceva Emilio Lussu nel maggio del 1950.
Nessuno infatti ci regalerà nulla.
(la foto, bellissima, è del compianto Claudio Gualà)
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