di Vindice Lecis
Ha indagato la vita e la morte dei villaggi medievali. Ha acceso un faro su pietre o ceramiche, le stesse che ci parlano, a volte inascoltate, della storia delle persone. E che i documenti, le “fonti”, ci fanno solo intuire o immaginare perchè ci raccontano una storia “istituzionale”. Marco Milanese, archeologo medievista e ordinario di metodologia della ricerca archeologica ci riceve nel suo ufficio al terzo piano del Dipartimento di Storia, Scienze dell’uomo e della formazione dell’università di Sassari di cui è direttore. Sono le 7,30, tra mezz’ora c’è lezione. Parliamo di archeologia, di età giudicale, di quei villaggi dove la gente, spesso senza volto per la grande storia, viveva.
L’archeologia medievale sta rivelando scenari sino a poco tempo fa non immaginabili. Nella comprensione, ad esempio, delle vicende dei borghi e dei villaggi abbandonati che a centinaia popolano, come miseri resti o cumuli di sassi e tegole, la nostra isola.
“L’archeologia medievale è una disciplina giovane. In Sardegna venne praticata negli anni Ottanta come archeologia d’emergenza, urbana, contingente. Successivamente ha assunto una visione sistematica della materia in relazione proprio all’indagine sui villaggi abbandonati”.
Con gli scavi a Geridu, vicino a Sorso, c’è stata una qualche svolta in questa storia.
“Quel progetto di ricerca nel villaggio medievale abbandonato aprì il fronte della ricerca archeologica programmata e sistematica”.
Geridu con le sue case e le sue vie anguste, ci portano oltre il concetto di villa senza impianto urbanistico.
“Certamente ha contribuito a superare l’idea della villa del medioevo sardo ancorata alla visione molto generica e sfumata che emerge dai documenti scritti. Dalle fonti non si può che immaginare la vita che si conduceva nel villaggio e anche il tipo di costruzioni”.
Un cambio di prospettiva?
“L’idea dominante nella medievistica sarda, ad esempio, era quella di immaginare case povere e poverissime. Gli scavi di Geridu tra l’altro hanno confermato che le abitazioni hanno i tetti con le tegole. Non è questione di poco rilievo. Dunque la casa della bidda non era diversa da quella della città, almeno di quelle a un piano. A Geridu, borgo di media grandezza, abbiamo le case miste, dove uomini e animali convivevano nelle abitazioni. Tutto questo lo dobbiamo alle informazioni stratigrafiche finalizzata a un utilizzo storiografico delle informazioni archeologiche”.
Abbiamo informazioni maggiori su come si viveva tra il XII e il XIV secolo.
“Anzitutto, abbiamo potuto leggere come la realizzazione degli edifici tardo duecenteschi e trecenteschi risponda a un qualche ordine, a una programmazione nell’organizzazione spaziale del borgo. Le case presentano moduli rettangolari dai 30 ai 66 metri quadrati, con copertura a doppio spiovente. E riferendoci alla cultura materiale, abbiamo potuto ben apprezzare la vivacità dei rapporti mercantili con Pisa, Savona e nell’area catalana”.
Anche i lavori nell’area di Bisarcio hanno portato a delle novità?
“Emerge un’organizzazione strutturata in veri e propri lotti urbanistici con stecche lineari di abitazioni che definiscono corti interne”.
Bisarcio può dunque fornire ulteriori elementi anche oltre l’età medievale.
“Certamente. Per questo tutta quell’area dovrebbe essere pubblica. I risultati delle ricerche sarebbero ancora maggiori. Del villaggio è rimasto “congelato”, dunque leggibile, l’antico assetto urbanistico fino al tardo ‘600 inizio ‘700, periodo del definitivo abbandono. Sarebbe auspicabile l’avvio di un parco archeologico che, in pratica, sarebbe già pronto”.
Un altro filone di straordinario interesse è l’area di Mesumundu, nei pressi di Siligo. Cosa sta emergendo dalle campagne di scavi?
“Una mansio, una stazione di posta romana per il servizio di stato per cambio dei cavalli e sosta di dignitari, era stata edificata lungo la strada per Caralis. Un luogo importante che sfruttava anche le acque del Pelao e di Sant’Antonio. Che furono utilizzate anche per un impianto termale tramite un acquedotto. L’importanza di Mesumundu sta nel fatto che in quel sito abbiamo potuto seguire il processo di abbandono e la successiva defunzionalizzazione delle terme. L’impianto andò infatti in rovina”.
Cosa accadde in seguito?
“Alla fine del V e sino al VI secolo l’area in abbandono si trasforma utilizzando in parte le strutture esistenti. Sorge così la chiesa di epoca bizantina, sorta di chiesa privata appartenuta a una famiglia o a un gruppo sociale che aveva proprietà nel territorio e riorganizzato le strutture fondiarie. Attorno sorse un cimitero aristocratico, segnato dalla vicinanza dell’edificio religioso, un luogo ricco anche di raffinata oreficeria”.
Parlare di Mesumundu mi spinge a chiederle dell’archeologia finalizzata ad indagare l’età tardo antica.
“L’archeologia tardo antica da quella medievale ha assunto la dimensione stratigrafica e la metodologia che ha consentito di acquisire informazioni importanti sulla Sardegna dal IV al VII secolo. L’epoca in cui si perdono le tecniche costruttive romane in luogo dell’uso del legno e del riutilizzo delle strutture e dei materiali preesistenti. Una sorta di cantiere al contrario”.
L’archeologia medievale può illuminare ancora meglio l’età giudicale?
“Direi di sì se pensiamo che attualmente ha espresso il 10% della propria potenzialità informativa. Dall’archeologia medievale possiamo conoscere insediamenti rurali e la storia delle popolazioni. Ad esempio dal cimitero di Bisarcio sta emergendo la storia delle persone: l’aspetto biologico, della condizione di lavoro e sociale. Quella dimensione materiale della storia spesso non visibili sui documenti, così attenti alle questioni istituzionali”.
Non mancano prò gli ostacoli…
“Serve una dimensione politica per mettere il l’interesse pubblico al centro. Non basta l’attenzione degli addetti ai lavori per far andare avanti la ricerca, la condivisione, la responsabilità collettiva. Serve una pianificazione strategica e un dialogo continui. Su questo registriamo le maggiori difficoltà e, direi, un sostanziale fallimento”.
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