di Vindice Lecis
Per favore: basta parlare di una Sassari del passato scintillante e gaudente perché quell’età dell’oro per pochi notabili, se mai c’è stata, si basava sulla miseria più nera di quasi tutto il resto della città. Seconda raccomandazione: finiamola di pensare alla storia come il frutto delle strategie salottiere delle “grandi famiglie” e non invece di processi economici complessi e anche feroci. E se smettessimo di mitizzare questa presunta età dell’oro forse saremmo in grado di gettare uno sguardo meno distratto su molti dei suoi protagonisti e chieder loro conto di alcune brutture ormai incancellabili.
Quali? Basta guardare Sassari e la sua squilibrata crescita, osservare il consumo di territorio, le devastazioni, il non luogo di Predda Niedda. “Sassari è nata in un territorio ottimo per l’uso agricolo Chiusa dalle mura faceva un figurone nel povero sistema difensivo della Sardegna, tanti edifici adibiti a funzioni di direzione e di servizio l’hanno accreditata nel tempo come capoluogo di una provincia vasta. Ci ha creduto nelle sue forze, fino al XVIII secolo, pensando anche di contendere il primato a Cagliari, più attrezzata e nientemeno che favorita dalla presenza stabile del vicerè”. Dialoghiamo di questo con Sandro Roggio (per i non sardi: Sandro Roggio è un architetto urbanista, col pallino della tutela e della cultura, non è un antisviluppista, tutt’altro, ma nemmeno è cieco e detesta le devastazioni. Gli da fastidio, e lo ha scritto in un suo libro di qualche anno fa, che la perdita di senso del territorio sardo, per via di un’aggressione incalzante avanza nell’indifferenza e per l’indifferenza di molti).
“Nell’ Ottocento vediamo i luccichi di un teatro, e soprattutto un piano di ampliamento con la visione lunga. Una sferzata di energia e la popolazione è cresciuta con un buon ritmo, nonostante la massa di indigenti alloggiati in case inconsistenti e malsane. Tant’è che ha pure superato lo choc della tragica epidemia del 1855 e alla fine del secolo era una orgogliosa comunità ancora con troppi poveri ma lo sguardo progressista, aperto alla modernità, aiutava a guardare meglio l’orizzonte”. Dietro il luccichio c’era dunque la miseria. E lo vediamo un secolo dopo.
“Negli anni Cinquanta del Novecento si diffondeva la TBC, con picchi di mortalità molto più elevati di quelli riscontrati in Sardegna. L’incubo che riaffiorava, lo sguardo ancora sulla città vecchia dove si moriva molto di più e molti non avevano da mangiare. È noto l’indice di affollamento soprattutto di indigenti. Si parla di 10 persone/vano,alle prese con la penuria d’acqua, le fogne inefficienti, la raccolta di rifiuti trascurata. Così fino a i primi decenni del Novecento. Un quadro disperato a cui si era tentato di rimediare con la ricetta di Concezio Petrucci, autore del PRG fascista. Si pensava di fare tabula rasa delle vecchie strade. Pure in assenza di un’idea di dove mettere tutti i poveracci sfrattati, solo pochi fortunati avrebbero beneficiato del programma INA- Casa e Iacp nelle aree di Monte Rosello, Baddimanna”.
Nasce in quel contesto l’idea di due città non comunicanti. “Mentre i benestanti già da un po’ erano impegnati a a mettersi in salvo, con mezzi propri, lontano dai focolai infettivi si consolidava il pregiudizio, l’ideologia resistente del nucleo antico avvelenato e insanabile. Meglio amputare che curare, piccone contro il bisturi, applausi per chi volesse concorrere alla catarsi con la speculazione più bieca. Togli qualche vecchio palazzo e riempi il vuoto a piacere”. E si comincia, o meglio si continua nella demolizione. “ Prima mossa a metà del secolo scorso: due palazzoni, grattacieli – li chiamano i sassaresi, che gettano la loro ombra ben oltre la piazza che a mala pena li contiene. Modello per altri interventi nei dintorni. La convinzione che la vita della città si sarebbe svolta sempre in quell’area circoscritta dove la borghesia più istruita e facoltosa esprimeva una multiforme vitalità , nella sede del Pci di Enrico Berlinguer o nella parrocchia di Francesco Cossiga”.
Demolizioni, consumo smodato del territorio, bruttezza di palazzi e quartieri, ghetti. “L’ esito delle previsioni del primo piano in democrazia è il quartiere marginal-popolare di Latte Dolce – Santa Maria di Pisa – spiega Roggio – dove si è relegata quasi tutta l’ edilizia abitativa pubblica dell’ultimo mezzo secolo. Squilibrato disegno, compromesso ogni futuro di coesione sociale. Chi non ha trovato risposte alla necessità di una casa a costi accettabili ha scelto il territorio agricolo, abitazioni unifamiliari su lotti di varia misura, una parte degli accudiddi a Li Punti- Ottava. Nella campagna più pregiata l’aspirazione alla villa di altri ceti. Suburbi segnati dalla omogeneità del reddito: a sud le ville dei più fortunati tra le querce di Monte Bianchinu, a nord gli autocostruttori, spesso abusivi, tollerati dalle amministrazioni altrimenti chiamate a farsi carico di un vasto disagio abitativo”.
E arriviamo alla febbre della crescita, dell’andare da qualche parte purché si vada. Una Sassari da bere. “Nel 1983 il nuovo piano regolatore, promuoveva la crescita purchessia – dice ancora Roggio – Dappertutto, pure in danno alla fisionomia migliore di Sassari, penso alle demolizioni di eleganti case borghesi del primo Novecento sostituite da più redditizi edifici multipiano. Un processo irrinunciabile per quanto vi fosse la contrarietà di molti e del quotidiano locale. Si è costruito molto e male e ovunque anche per rispondere alla immigrazione dai paesi. Il patrimonio edilizio che nel 1919 era costituito da circa 2600 edifici – realizzato in 5- 600 anni – e aumentato di almeno sei volte volte nel tempo breve di mezzo secolo (a cui non corrisponde un cosi importante incremento di abitanti). Il coinvolgimento di territorio investito dal processo di urbanizzazione, fotografata nel passaggio di secolo, è almeno venti volte quello della struttura urbana com’era negli anni Cinquanta , con i suoi preziosi oliveti e orti a contorno”.
Nel marzo 1992 sulla Nuova Sardegna a proposito delle questioni che stiamo affrontando ora scrivevo: “Tra notti dei lunghi pennarelli e vandali entusiasti, per rubare un’espressione di Victor Hugo, Sassari si presenta all’appuntamento di fine secolo con il volto devastato dalle rughe e dalle ferite. Il colossale scontro di interessi e di prospettive che ha sconvolto la città nell’ultimo decennio è l’esplosione di una metastasi edilizia, una profonda frattura tra i quartieri, l’inarrestabile degrado del centro storico, la perdita di un’identità ancora abbastanza ben definita sino alla fine degli Anni Cinquanta” .
Parlo di metastasi edilizia. Roggio preferisce “bulimia edilizia”. “Dopo il 1980 è difficile capire la forma di Sassari, qui finisce la città e là comincia la campagna. È successo da altre parti che la rendita abbia guidato il progetto urbanistico ma l’impressione è che qui di sia andati oltre. La bulimia edilizia che fa bene, il metabolismo giusto, è ancora viva. E neppure la crisi economica ha portato a riconsiderare la smisurata fiducia nel ciclo edilizio perpetuo, anche da parte delle banche di casa che hanno un fardello di case di cui sappiamo poco. Sembra una condanna l’atteggiamento corrivo che ha contribuito alla graduale svalutazione della città imbruttita dall’ingordigia, e indifferente come altrove al rischio di una bolla immobiliare”.
E arriviamo a Predda Niedda, un’area gigantesca fitta di capannoni, un non luogo appunto, una città delle ombre che divora l’altra, quella dei vivi. Roggio è chiaro e severo. “Predda Niedda è l’errore e l’orrore più grande, credo pure per incompetenza della classe dirigente sassarese. Centinaia di ettari urbanizzati con denaro pubblico, una zona industriale d’interesse regionale- ZIR usata per accogliere una moltitudine di ipernegozi e negozietti a contorno. Pochissime le manifatture e quindi un tradimento dell’impegno economico di Regione e Stato.Il bilancio: 175 mq di superficie commerciale ogni 1000 abitanti nel distretto sassarese, un rapporto molto più elevato delle medie nel Centro e nel Nord del Paese e che a Cagliari si ferma a 121 mq”.
Ma c’è un altro aspetto, l’idea suicida e subalterna che Sassari debba somigliare a Predda Niedda. “La grande distribuzione, ossia Predda Niedda – spiega ancora Roggio -, è la causa della separazione tra residenze e attività commerciali, amalgama indispensabile per dare senso all’abitare. Un disastro. Si capisce la sofferenza dei commercianti nella città compatta, che però hanno sempre pensato di risollevarsi omologando il centro agli standard e ai codici estetici di Predda Niedda. Viva i parcheggi. No all’idea di città pedonale che altrove ha dato risultati.Chi percorre le vecchie strade vede oggi la città sconfitta nelle decine di negozi chiusi e di cartelli vendesi senza compratori. Chi deve fare acquisti è ormai costretto ad andare là, dove ci sono merci che non si vendono in centro”.
A Sassari poco si discute di scelte strategiche. E anche sul nuovo piano urbanistico redatto e approvato in una decina di anni “l’impressione è che nonostante il tempo trascorso l’attività di pianificazione non sia stata accompagnata da un dibattito all’altezza delle questioni aperte e delle attese. Molte le sottovalutazioni, specie della Sassari sparpagliata dove abitano ormai più di 30mila cittadini, un quarto e più della popolazione. Una doppiezza che pesa: da una parte la città densa, con profili da strapaese, imbruttita e intristita; dall’altra lo strampalato blob che la accerchia. Un assetto sbilenco, e d’altra parte questo modo di vivere, sparsi nelle campagne, ha un costo insostenibile, per le famiglie e per il Comune, e non reggerà”.
Si procede a tentoni da parte dell’amministrazione civica per aggiustare in corsa qualcosa. “Leggo su La Nuova Sardegna del PUC approvato di recente. Ci sarebbero difficoltà di attuazione e si pensa ad aggiustamenti, se interpreto bene le parole dell’assessore Carbini. C’è una profonda delusione, più grande di quanto non si voglia ammettere. Si parla di aggiustamenti relativi ad alcune zone omogenee, ma mi pare che non si escluda un intervento di revisione profondo, ben più di una messa a punto di uno strumento che ha trascurato le questioni rilevanti a cui accennavo prima. Nel PUC si è preso semplicemente atto dell’agro urbanizzato e di Predda Niedda, una convalida implicita di realtà tanto ingombranti o forse una resa”.
Infine il centro storico. Secondo Roggio “è trattato con la visione di molti anni fa, quando ancora non era stato occupato da cittadini stranieri in molte parti, una circostanza fortunata e poco indagata, forse utile. L’impressione è che serva una visione originale e coi piedi in terra. Riconsiderando anzitutto la crescita proposta dal piano: un volume per oltre 30mila nuovi abitanti, inconciliabile con il previsto decremento di popolazione di 10mila nel 2030. L’estensione sottintesa delle urbanizzazioni ad aree ancora libere renderebbe più marcata la frammentazione, accrescendo le esclusioni e le disuguaglianze. Credo che l’amministrazione dovrebbe aprire il dibattito su questo”.
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