di Vindice Lecis
Alle pareti sono appesi i ritratti di Antonio Gramsci, Enrico Berlinguer e Luigi Polano, Sarà un caso: tre sardi, due sassaresi. E, magari, tra poco, farà loro compagnia anche Palmiro Togliatti che, a Sassari, ha studiato nel prestigioso liceo-ginnasio Azuni. La sala è gremita, sembra scoppiare per quanta gente è arrivata all’inaugurazione della nuova sezione del Partito comunista italiano. E’ in via Mancaleoni, nel popolare quartiere del Monte Rosello. Fuori, sventolano tre bandiere rosse, quelle con la falce e martello e stella sopra il tricolore e la scritta Pci. Le sedie non bastano più, moltissimi stanno in piedi addossandosi alle pareti. Invadono le scale e il cortile. Felici di ritrovarsi. Sorridono, si abbracciano. Si ritrovano e parlano quell’alfabeto sepolto eppure così moderno per capire l’oggi. Ritrovarsi dopo anni di disincanto, di fiducie mal riposte, di partiti con simboli botanici appassiti e che ora sono confluiti in un orrendo qualcosa che non li rappresenta più. Da tempo o da sempre, per la verità.
La sezione sassarese del Pci ricostituito è stata intitolata a Luigi Polano ed Enrico Berlinguer. Una duplice responsabilità. Non è certo un caso questo richiamo forte alle radici e a due esponenti “di quel Pci” sciolto nel 1991 quando entrambi erano scomparsi già da sette anni. Polano, il “fondatore” con Grasmci e Togliatti e poi intrepido militante rivoluzionario. Berlinguer, l’uomo dei pensieri lunghi, della modernità, della democrazia e dell’autonomia. Delle grandi speranze di portare i comunisti, e la classe lavoratrice, al governo.
Visto come è andata, si può dire che la Bolognina sia stato un colossale errore e il seguente congresso di scioglimento il risultato tragico di quell’errore. Da allora la sinistra – quella che organizzava e rappresentava il popolo – ha cominciato a morire. E si è trasformata in altro: in qualcosa che ha progressivamente abbandonato il conflitto tra capitale e lavoro abbracciando falsi miti liberali, dimenticando i diritti collettivi per scegliere – contrapponendoli – quelli individuali. Una mescolanza di partito leggero, personalismo, abbandono non solo di ideali ma anche della semplice ipotesi di trasformazione sociale. Una valanga che ha travolto tutti, anche coloro che in buona fede ritenevano necessario costruire una sinistra più grande. Ma non una sinistra contro la tradizione comunista italiana.
La sinistra senza il Pci – senza i comunisti – è infatti diventata altro da sè. Una insopportabile mistificazione. Ha subìto in 25 anni una gigantesca trasformazione genetica, una devastazione culturale. I suoi dirigenti, figli di quella stagione, si sono adeguati alla mediocrità imperante e oggi appare imbarazzante la loro ferocia e desiderio di potere. La sinistra è diventata un campo eterodiretto dal direttore del giornale di turno, si è allontanata dalla missione storica di cambiare la società. Perché l’ipotesi di fare grande la sinistra italiana, abbandonando la tradizione comunista italiana – così peculiare da Gramsci a Togliatti sino a Berlinguer – ha portato a quell’indigesta melassa, a quell’inaudito arido deserto – anche umano – che è davanti ai nostri occhi.
Dunque, una sezione comunista a Sassari va considerato un vero evento politico e culturale. A inaugurarla, chiamato dalla segretaria provinciale Patrizia Marongiu – anima di questa rinascita con molti altri che l’hanno aiutata con un entusiasmo travolgente, tra cui molte donne – è arrivato il segretario nazionale Mauro Alboresi. Un bolognese solido e di non troppe parole. Che è stato operaio e poi sindacalista. E che non si sente – il suo partito non si sente – erede di quella gigantesca storia che è stata la vicenda umana e politica del Pci. Non si può, certo. Proprio per il rispetto che si deve a quella storia. La scommessa è semmai, quella di far diventare la sinistra di nuovo sinistra. Popolare, capace di parlare il linguaggio del Paese che vuole cambiare, vicina a chi sta male, soffre e lotta. Che sceglie. Combatte. Gettando nel cestino quell’indigesto ma anche veltroniano.
Occorrerebbe ammettere – anche da parte delle forze che si richiamano al progressismo – che senza i comunisti e le loro idee di trasformazione, la sinistra italiana è finita. Ripartire senza nostalgie, con lo sguardo rivolto al futuro è certo il primo passo. D’accordo. Ma allo stesso tempo avendo ben chiaro che la storia non si cancella, le radici non si tagliano. E che innovazione non significa fare programmi sempre più simili a quelli della destra, anzi sovrapponendosi a quella. Perché questo è oggi il Pd. Mentre alle organizzazioni che non si definiscono comuniste bisognerebbe ricordare che dalla scomparsa del Pci, ci sono stati il Pds e i confusi Ds. Che imboccando la discesa scivolosa nella ricerca dell’oltre, sono finiti nelle mani di Renzi. E a destra di qualsiasi scalcagnata socialdemocrazia europea.
Dunque, una sezione. Casa del popolo, aggregazione, scuola di democrazia, luogo di incontro e di organizzazione politica (la sezione è la base di un partito, il suo luogo fisico e concreto, non un sito internet e il contrario di un movimentismo scriteriato privo di obbiettivi). Autofinanziata. Iscritti in crescita e molte idee da trasformare in azione politica immediata da mettere al servizio del territorio. Non sarà facile ma la spinta è nella logica delle cose.
Questa inaugurazione così affollata – come non se ne vedeva da tempo – nel cuore del Monte Rosello a Sassari riporta ad altre epoche, non ripetibili, ma utili per osservare con sgomento quanto è stato dilapidato. E confrontarsi – senza iattanza – per capire quanto spazio c’è per una sinistra moderna che si riconosce nel valore liberatorio e possente del socialismo. Nel 1951 a Sassari il Pci aveva in città poco più di settecento iscritti e quattro sezioni: la Gramsci, la 14 luglio, la Stella Rossa e la Stalin. Trascorsi 25 anni, nel 1976 il Pci conquista il 29% alle politiche e organizza 1896 iscritti. Le sezioni si moltiplicano: Togliatti, Secchia, 14 Luglio, Spano, Laconi, Di Vittorio, Gramsci, Fratelli Cervi, Lenin, Ho Chi minh. Con un nucleo anche nelle campagne. E con l’obiettivo di raccogliere dieci milioni per la stampa comunista.
Altri tempi, si dirà. E’ vero. Ma se le cose in Italia sono peggiorate drammaticamente, qualcosa si dovrà pur fare. Colpevole sarebbe percorrere le strade battute in questo quarto di secolo da partiti botanici, leggeri o elettoralistici. Perché sono soluzioni che non servono. Le diseguaglianze sono cresciute e diventate insopportabili. E nel contempo è venuta meno la reazione popolare, l’organizzazione di massa delle lotte per difendere le conquiste faticosamente raggiunte e ottenerne nuove. Da qui bisogna ripartire, con umiltà. Il difficile comincia adesso, per tutti.
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